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L’ANSIOSA METAFISICA DI CACCIARI

23 dicembre 2023

(recensione a Massimo Cacciari, Metafisica concreta, Adelphi 2023) di Nicola Licciardello

Se, come dichiara il risvolto di copertina, “quest’opera conclude l’esposizione del suo sistema filosofico, avviata con Dell’inizio (1990), proseguita con Della cosa ultima (2004) e Labirinto filosofico (2014)”, non abbiamo più chances di comprenderlo meglio. Userò lo spazio concessomi solo per evocare certe costanti del filosofo-scrittore Cacciari e le novità relative di questo libro. Queste ultime forse quasi più interessanti, per cui corro il rischio di iniziare da qui.

Il titolo: Agli spartiacque del pensiero. Lineamenti di una metafisica concreta doveva intitolarsi l’opera complessiva di Pavel Florenskij: di cui Cacciari qui cita la prima edizione italiana (1974) de La colonna e il fondamento della verità a cura di Elémire Zolla. Riprende Florenskij nel finale del libro: luminoso esempio di Philosophia perennis “come un sì alla vita”. Di Zolla cita anche Lo Stupore infantile, a proposito del simbolo: “Il mito è l’esegesi del simbolo, la sua dilatazione narrativa, che ha però una funzione speculativa”. Se anche non elaborate queste sono novità, Cacciari aveva sempre evitato di poggiare il suo discorso filosofico su un esoterismo trans-culturale (cioè l’indagine di un archetipo, esempio la Madre, la Guerra, etc. in differenti culture). Ancora più rilevanti sono gli accostamenti al sanscrito delle Upaniśad: di Giorgio Colli cita l’identificazione fra il greco “essere” tò ón e il brahman (p.45), pur distanziandosene – ma in prima persona enuncia poi una serie di radici comuni, come sat e satya, omologia sanscrita di Essere e Verità, o affinità come sukha, “piacere” e il latino succus (p.297-300), oppure āyus “salute” ed eternità (greco aiei, aien, aion, p.323). Ancor più pregnante una citazione diretta da quella che definisce tout court “sophia upaniśadica”: dal finale del quarto adhyāya della Bṛhadāraṇyaka, la più antica (coeva forse dell’Iliade): “In verità questo grande e increato ātman, senza vecchiaia o morte, senza paura, è il brahman. In verità il brahman è felicità e diventa il brahman stesso colui che così conosce” (p.305). Questa “sophia” transculturale (greco-sanscrita) è direi innovativa per il nostro.

Frequenti ma meno nuovi in Cacciari sono i rimandi alla scienza contemporanea. Questi percorrono tutto il libro, ma addensandosi in due occasioni: prima, laddove soprattutto la fisica odierna serva a decostruire l’oggettività del mondo e scioglierne ogni approccio riduzionista (quale il meccanicismo, o l’idea che un sistema è la somma delle sue parti, etc), quindi privilegiando invece la complessità, il bios, l’interazione olistica. Fino a mettere fra parentesi il fatto morte, sostituendolo con quello di osservabile/non osservabile (p.319) nel cronotopo (o spazio-tempo), tipico della fisica quantistica. Vi è ad esempio una pagina bellissima, dove affronta il problema della simultaneità e del nostro sguardo, che vede il firmamento pieno di stelle in verità già estinte, ma le vede anche nascere… “la stella (ora finita) io la vedo ancora viva, passato-presente, passato che ora non passa, questa è l’anamnesi platonica…sguardo che vede nascere un’altra stella” (p.321). La seconda occasione, diciamo così, per cui nel discorso cacciariano la scienza contemporanea è essenziale, è che la sua articolazione specialistica deve necessariamente far segno all’istanza della filosofia, che sola può garantirne il mirare all’Impossibile. Sul concetto di Impossibile gravita l’intero libro, e vi si tornerà, fin d’ora segnalando che è proprio questo a trasmetterne un’ansietà complessiva. Valga intanto riportare il quasi accorato appello finale ai filosofi, che forse dovranno abbandonare persino la profondità di Dante per “assumere una responsabilità ancora più difficile, quella di ‘salvare’ la sostanzialità dell’essente nelle diverse forme di scienza, salvarla fino all’estremo, all’éschaton (ultimo) del possibile, e ascoltandola ricercare il senso dei diversi saperi, mostrare la possibilità che il logos di ciascuno possa essere comunicazione, philía del comunicare, co-scienza che divino è il colloquio tra loro e di loro col mondo, philo-sophía e phil-agathía”.

Senza dubbio è altrettale la preoccupazione di percorrere lo spazio paradossalmente ‘proibito’ al filosofo in politica. Un nodo insolubile sembra legare il filosofo alla politica della sua città: nellacatabasi (discesa) alla caverna platonica egli è mosso da com-passione per i suoi (ex)compagni ancora incatenati allo schermo televisivo, ma nell’anabasi (risalita) egli è impedito dai suoi compagni, preso per matto e minacciato di morte: “non può che tendere al governo della polis, però mai averlo e nemmeno desiderarlo, perciò sarà sempre in lotta con la sua arché” (p.21 nota). A questo destino che lo accomuna ai prigionieri non sfuggirà infatti nemmeno Socrate, l’unico uomo átopos, senza luogo, comune e libero, però soggetto alle leggi della sua città. “In questa polis vivo e ne riconosco le leggi, ma a un tempo le contra-dico, con-fliggo con esse, non riconoscendone fisso il loro confine” (p.414). Con pena, non solo perché tali leggi verranno comunque superate, ma perché il Politico ‘metafisico’ è oltre l’ethos osservabile, abbracciato dall’Inosservabile o Impossibile. Nonostante lo stesso Cacciari dichiari l’affinità di questo concetto con quello di Irrealizzabile di Agamben, rimane un’ipostasi ben precisa.

Non è casuale, innanzitutto, il riferimento dell’Impossibile alla Rivelazione cristiana. E cioè che l’Impossibile non è tale solo in quanto esito logico del “ogni cosa è possibile”, ma in quanto caso di Resurrezione. Se “per il credente stesso la resurrezione è impossibile”, si tratta di oltrepassare questo muro dell’Impossibile, analogo a quel muro di fiamma che Virgilio presenta a Dante nel XXVII del Purgatorio: “or vedi, figlio:/ tra Beatrice e te è questo muro”. L’angoscia del morire deve rovesciarsi nell’esultanza dell’Immortalità, nella Rivelazione che è possibile l’Impossibile: “Dio non vuole esser creduto, vuole che si creda nell’Impossibile, come nella libertà, anch’essa indimostrabile” (p.361). Ma prima della resurrezione (istantanea in Dante) l’Impossibile si manifesta nella decisione di morire per altri (anche Alcesti). E “morire per altri significa donarsi, per-donarsi senza aspettarsi nulla in cambio”. E’ a questo livello di amore incondizionato che Cacciari recupera non solo, ovviamente, Dostoevskij, ma anche lo Zarathustra di Nietzsche (contro Schopenhauer): solo nella traboccante autocoscienza del “Tu devi farti più povero, prima dona te stesso, o Zarathustra!” è davvero possibile annunciare l’Oltre-Uomo, ossia la “liberazione dalla catena di esser giudicati e puniti.”

In questo contesto ‘sacro’ la lezione di Severino quasi svanisce – certo, contro l’heideggeriano ‘essere per la morte’ vale l’eternità degli essenti di Severino, per il quale tutti diveniamo invisibili, ma non perciò annullati, solo orbitanti in altri spazi. Ma tutto questo perde di attualità, diciamo così, di fronte all’energia del possibile-Impossibile ora del tempo messianico. Benjamin infatti rimane il nume tutelare della filosofia della storia. E con lui, paradossalmente, si svuota interamente il Male: primo, perché la Rivoluzione è nell’Attimo a-cronico (quando si spara agli orologi, dice Benjamin); secondo, perché “il Principio della negazione non può non volersi negare, Satana scaccia Satana (p.374)…apocalisse ora, il Male si riflette alla sua fine”. Questo razionale ottimismo sembra proiettarsi beneficamente sull’attuale condizione planetaria, al punto che, riferisce Cacciari, è vero che nel Talmud c’era una sorta di superluce per cui l’uomo poteva vedere da un capo all’altro del mondo, ma col Diluvio si oscurò, “il Signore la tiene riposta per i giusti nel tempo avvenire”: potrebbe tornare ora questo tempo, o ci sono troppi katechon, freni alla Rivelazione ? Chissà.

Questo richiamo biblico apre una domanda sulla critica di Cacciari a Nietzsche riguardo al suo “Dio è morto”. “Ciò che l’uomo può uccidere – e lo ha fatto –, si affretta a dire il Nostro, sono soltanto le sue idee intorno a Dio, superstizioni, religioni e teologie. Né il Dio-Natura né il Dio nascosto, in quanto inosservabile, possono venire uccisi o negati. Intendere Dio come ‘ciò’ che contiene in sé i ‘valori’ della tradizione giudaico-cristiana e aspetti essenziali della paideía classica è un’operazione filologicamente discutibile e filosoficamente di inutile retroguardia” (p.285). Ecco però mi sembra che proprio tale è ancora il mainstream culturale dell’occidente, non escluso lo stesso Cacciari in questo libro.

Un ultimo, forte accento pervade molte pagine di Metafisica, riscattandone possibili contraddizioni o impostazioni superate – sulla Poesia e il linguaggio poetico, come intraducibile esempio di Impossibile che le Muse concedono. Per Esiodo “molte cose le Muse dicono ingannevoli o false, ma sanno anche, quando vogliono, alethéa gerýsasthai, annunciare cantando la verità, cantare l’essente nella sua disvelatezza.” E non per una mitica capricciosità, ma per l’intrinseca natura della poesia, essenzialmente analogica – e “analogica è la sola modalità del pensare filosofico che può avvicinarvisi” (p.394). Dunque “non possiamo astrarre il pensare dal legame con il páthos” (ivi), e persino la fede “avrà certo anch’essa fondamento biologico nella propria indistruttibilità.” Indistruttibile dunque è questo principio che tutti accomuna, nelle insospettabili parole di Kafka: “L’indistruttibile (Unzerstörbare) è uno. Ogni singolo uomo lo è, al tempo stesso è comune a tutti. Ecco l’origine dell’incomparabile, inscindibile unione che lega gli uomini”. La chiosa di Cacciari non può che ripetere: “ciò significa credere nell’Impossibile che il nostro esserci, l’inalienabile presenza di ogni essente, possa manifestarsi kath’hautó, essenzialmente, come Vita-Aión”.

La solidità della poesia dunque si rivela per Cacciari come una sintesi a priori fra il muto bios e laParola, “parola che sempre ci manca” e che “viene sempre dopo l’immagine”: perciò invece che iQuattro Quartetti di Eliot, complessa discussione sul Tempo, preferisce parlare dei Cantos di Pound,“sola grande opera contemporanea capace di dialogare con la Commedia” (406 nota). Ma non tanto perché (al di là delle intenzioni) possano dialogare con la Commedia1 preferisce i Cantos ai Quartetti,ma per una qualità intima della poetica poundiana, la povertà. Pound “ormai per scintille, per illuminazioni, per ritmi, si esprime per drafts, incapace di compiere l’Opus, e tuttavia nell’inesaustocombinarsi-confondersi di frammenti, citazioni, rovine, resiste, traducendo variamente l’idea delkalón, dell’Ordine, l’idea di reverence e di charity, di aidós e di caritas – resiste nella nostra attualepovertà Amor philía, e questo bisogna cercare di dire e di fare sentire, nella sua ferma opposizionealla avaritia” (pp.406-7 nota). Un filo rosso infatti sempre regge la poesia di Pound: il fascio dienergia dell’uomo Ezra, la sua generosità e dirittura morale, l’intento di giustizia che innerva il suo costante, dantesco giudicare i vivi e i morti. La sua è sempre l’evocazione di una comunità di poeti, un cosmopolitismo di quelli morti e di quelli vivi, da lui provvidamente soccorsi.
Quanto vicino in questo allo Stilnovo, come Dante, a Pound manca soltanto il registro aureo del Paradiso, e forse quella stessa incommensurabile chiarezza (übermässige Klarheit) che Robert Musil invoca nei “dialoghi sacri” tra Ulrich e la sorella Agathe nelle ultime pagine de L’uomo senza qualità, sempre citato da Cacciari. E quel silenzio, qui declinato come inizio e fine della coscienza umana, è “il senso concreto del Mistico che avvolge ogni parola e ne costituisce l’anima, ciò che le dà vita.” (386). Ma non può sfuggirgli nemmeno l’incredibile, libera creatività della parola parlante, per cui riporta quel “s’io m’intuassi come tu t’inmii” di Cunizza da Romano (PAR. IX, 81), quando evoca gli straripamenti dei fiumi veneti.
Non casuale, si diceva, è il riferirsi dell’Impossibile alla fede cristiana: “Per il credente, scrive infatti Cacciari, c’è l’infinita energia del perdono, Dio perdona anche l’imperdonabile. E in Dante “l’amore divino vince tutto, la stessa misura della propria giustizia, e quindi giunge a salvare tutti” (369). C’è soltanto l’inspiegabile silenzio sul Cristo, ma “le Donne (Maria, Lucia, Beatrice, Matelda e Lia) salvano, mostrando l’Impossibile del Paradiso”.

NICOLA LICCIARDELLO

1 Su questo rinvio al mio Dante tantrico e vedico, nel volume collettivo Sguardi su Dante da Oriente, a cura di Carlo Saccone, Edizioni dell’Orso, Alessandria 2017; e Esoterismo fra avanguardia e globalizzazione: Pound Eliot Yeats in “Rivista di Studi Indoeuropei” IX (2019) – http://kharabat.altervista.org/index.html

2 Il canto LXXXI, scritto in Italia: “Ciò che sai amare è il tuo vero retaggio/ Ciò che sai amare non ti sarà strappato/…/ Deponi la tua vanità, non è l’uomo/ che ha fatto il coraggio, o l’ordine o la grazia; nel CXVI vi è una confessione e richiesta di perdono per non aver saputo scrivere quel paradiso terrestre che si era prefisso.

CON IL CUORE LEGATO A EDIPO

21 agosto 2023

Attualmente non passa giorno senza un richiamo all’operaismo italiano – in primis per la scomparsa del suo inventore Mario Tronti e il novantesimo compleanno di Toni Negri – e così la ripubblicazione del libro della figlia Anna, Con un piede impigliato nella storia (Derive&Approdi, già Feltrinelli 2009) – al cui  transfert allude il titolo di questo articolo.

Lo scrivo in qualche modo con un senso di liberazione da un tabù – il mio stesso rifiuto, a suo tempo, di credere nell’esito rivoluzionario delle lotte operaie 1968-69 – pur rimanendo a contatto di gomito coi compagni dell’Istituto di Scienze Politiche di Padova (1970-74). Collettivo che fu la mia prima ‘comunità’, in equilibrio per la presenza femminile di Mariarosa e Lisi. Il mio rapporto con Negri proveniva da Massimo Cacciari che me lo aveva presentato, così fui al primo dibattito di “Contropiano” (sul numero 1 il mio saggio Proletarizzazione e Utopia). Nell’Istituto, scrissi alcune voci dell’Enciclopedia Feltrinelli Fischer Stato e Politica (affidata a Negri), e intervenni al dibattito con ospiti quali Bruno Trentin, Gino Giugni o Giovanni Marongiu. Ma ben presto mi accorsi che l’Italia non era nella condizione “prerivoluzionaria” dichiarata dal Direttore. In seguito, ho visto come provvidenziale il mio (auto)licenziamento dall’Università nel ’74, sarei stato certo arrestato con tutti gli altri il famoso 7 Aprile ‘79. Da giornalista al “Mattino di Padova” poi, nel 2005 mi fu chiesto un contributo sul maȋtre à penser Negri, giudicato dal “Nouvel Observateur” fra i 25 maggiori pensatori mondiali assieme a Giorgio Agamben. Quella volta gli riconobbi la forza delle formule rivoluzionarie “dentro e contro” l’Impero, ma problematizzavo i suoi metodi, e ricordavo già con sollievo l’esser fuori dal quel baccanale dialettico, urlato e metallico, la cui forma sembrava imporre l’adesione. Come altri, credo fui attratto più che dai contenuti soprattutto dallo stile di Tronti, da lui stesso rivendicato come marchio del gruppo. Ma poi mi sono occupato di tutt’altro: di Oriente, poesia e mistica universali[1].

L’ultima intervista a Negri di Roberto Ciccarelli su Alias (Manifesto 5 agosto) ammette alcune problematiche non risolte, in particolare i due non ascoltati consigli della Rossanda: prima, di non scappare in Francia nell’83, poi di non tornare in Italia nel ‘97, fidandosi delle promesse di qualcuno. Nell’intervista egli esprime più volte il suo dolore per non aver fatto nulla per tirare fuori di galera i suoi colleghi d’Istituto, a partire dal carissimo Luciano Ferrari Bravo (che finalmente fuori negli anni 2000 tante volte m’invitò a cena). Ma quel dolore è, come si dice in gergo, il ‘minimo sindacale’. Non vedo però una piena consapevolezza delle responsabilità storiche di Negri. Certo, vi sono delle svolte così imponenti e dolorose che tutti tendiamo a dimenticare. Ma come si fa a dimenticare Genova 2000 e ciò che ne è seguito ? Come non rammaricarsi allora di non aver consigliato ai suoi (o all’intero movimento!) di dissociarsi da quella trappola, ben annunciata dal potere – che col pretesto del G8 militarizzava la città, recintando una invalicabile zona rossa ? Ovviamente invece lo sfondamento di quella zona diventò l’obbiettivo per il movimento capitanato da Luca Casarini. Genova G8 è la svolta repressiva del millennio, un evento progettato a tavolino per seppellire decenni di autonomia, di altermondialismo e d’interlocuzione con la famosa “Moltitudine” ! Troppi, singolarmente e nei più fantasiosi gruppi, un’intera generazione andarono a quell’appuntamento della storia – ci sarei andato anch’io, mi salvò un pastore maremmano mordendomi a una gamba il giorno prima.  Sappiamo come è andato il piano – fra provocazioni di “black bloc” e “no global” incastrati nella guerriglia – riuscito perfettamente: Carlo Giuliani ucciso in piazza, l’inverosimile mattanza notturna alla Diaz, la ciliegina degli sfregi a Bolzaneto. Italia terzo mondo.

Ma non si trattò solo di questo – cioè il messaggio che il tempo dello scontro con le forze dell’ordine era concluso – ma che davvero iniziava un’altra era, quella dell’algoritmico riconoscimento identitario, della schedatura universale, l’inizio dell’Intelligenza Artificiale ! Di tutto ciò non si poteva essere inconsapevoli, perché questa era la vera essenza dell’Impero, esemplata senza equivoci da Orwell  già nel 1948, cioè quel 1984 raccontato con poco anticipo sulla realtà. Forse Negri lo aveva considerato innocua “letteratura distopica” ? Ma è il disegno politico di una mente lucida – senza la troppa attenzione (dell’operaismo) a una certa fase del capitalismo, e piuttosto alla sua essenza tecnica, super-modernista.

Tecnica onnipervasiva e multigenerazionale, come mostra il libro della figlia di Toni Anna, Con un piede impigliato nella storia. Un libro stranamente dialettico, che mostra l’inevitabile condizionamento familiare, ambientale, storico, nella stessa auto-narrazione, come se non volesse liberarsi di tutti questi livelli di realtà, che costituiscono infatti non solo la sua bio-grafia, ma un tratto della vera, Grande Storia d’Italia. Perché una Padova, o una Milano, una Roma senza la persecuzione del Padre e insieme del Movimento, senza l’esperienza ingestibile del carcere, è per Anna impensabile – impensabile immaginare quale sarebbe stata una vita libera, una vita normale, la vita che insieme alla madre avrebbe potuto desiderare… e certo, è così per tutti, ma questa particolare esperienza di sottrazione, dolore, ingiustizia che colpisce una famiglia nelle sue generazioni e diramazioni ha qualcosa di tragico ed esemplare, come un capitolo dels “ciclo dei vinti”.

Non a caso, il libro si chiude narrando proprio che “il Capodanno 83-84 sono andata a vedere 1984 di Orwell, dove “hanno vinto perché hanno distrutto l’affettività… noi ragazzi imperfetti e vulnerabili avevamo attraversato una catastrofe e ne eravamo usciti a pezzi” (p.314). E la denuncia politica è netta e definitiva: “Tutta la classe politica italiana è Crono che mangia i suoi figli, l’Italia è una società dove è impossibile crescere… ci sono ferite che non si rimarginano, perché è morta tanta gente, sono morte le vittime del terrorismo, quelle delle bombe, ma sono morti anche tanti poliziotti, e sono morti anche tanti operai, come quelli che lavoravano alla Montedison, stroncati dal cancro, e ognuno di loro a casa aveva parenti che li hanno pianti, e per ognuno è stato ingiusto, ogni morto è importante e per ognuno è stato ingiusto, tanti dei compagni finiti in galera sono morti giovani, di tumore, come se la galera li avesse fatti ammalare, anche Luciano, il padre di Francesca, Federico e e Fabrizia, i nostri amici di quegli anni, Luciano che dopo cinque anni e mezzo di carcere e uno di confino era stato completamente prosciolto”… Sicché conclude: “siamo stati tutti bambini traumatizzati da una Storia che non ci apparteneva, e che non abbiamo scelto. E che i figli portano sulle spalle le colpe dei genitori, e prima o poi con queste devono confrontarsi.

La vita però va avanti, e proprio uno che è andato dentro con mio padre è riuscito a curare mio fratello…molti si sono messi a lavorare nel sociale… mia madre già anziana si è rimessa a fare politica nei centri sociali, ha ritrovato se stessa, ma allora sono crollata io…e ancora adesso che sto scrivendo questo libro ogni tanto ho paura delle ripercussioni, delle occhiate della gente, perché è vero quello che una volta mi ha detto mio padre, sono una che ha preso troppa paura. D’altronde penso che la vita è quella che ti capita, non la scegli. Penso che quello che mi è capitato mi ha aperto gli occhi, mi ha affinato lo sguardo, rendendomi la persona diversa che sono”.

Questa, la pagina conclusiva del libro, sembra attribuire al padre persino l’intima consapevolezza della “troppa paura”. Lo shock indimenticabile campeggia al capo opposto, all’inizio del libro: il freddo acciaio di una mitraglietta sulla pancia di una bambina di 12 anni, che apre la porta di casa alle 7 di mattina. La casa di Padova, che “era come un’isola incasinata e felice,” al centro della città, con un gran terrazzo su Piazza delle Erbe, era come un fuoco urbanistico, troppo evidente per essere attaccato. Invece, con gran sorpresa della ragazzina, fu proprio ciò che accadde. Una vena ironica generazionale fortunatamente percorre i capitoli, ovvero le età biografiche, nel secondo ecco il Festival di Re Nudo al parco Lambro di Milano, dove l’adolescente scopre la felicità del corpo. Ma la mamma riferirà anche di camion del Comune che spruzzavano diserbante sui giovani rimasti nudi troppo tempo, e del resto era l’estate di Seveso. Il racconto è sempre sorvegliatissimo, consente escursioni positive a tempo limitato. Realismo storico intimistico. All’ educazione sentimentale della protagonista non mancano Jannacci, gli spinelli, “il Male”, “Radio Alice” di Bifo, Demetrio Stratos, ma il capitolo si chiude con gli assassinii di Francesco Lorusso e Giorgiana Masi.

Non conosco l’Anna regista, ma nella scrittrice non vi è traccia di quel “pensiero negativo” che da Francoforte a Berkeley aveva informato più di una generazione (forse una traccia è in quel parlare da sola della madre, la generosissima Paola Meo), e qui fra parentesi si può osservare che il passaggio di testimone da Adorno a Foucault non è stato poi tanto salutare ai movimenti. Ma finisco sul racconto di Anna. Il terrorismo non è un buon maestro, e Anna forse l’ha subito troppo. Il rifiuto (perché troppo caldo) alla richiesta paterna di salire sull’Acropoli, come poi la riconciliazione a Capo Sounion, sembrano anticipare la rottura col liceo classico e l’avviamento a una scuola di regia. E quasi sorprende la completa adesione ai tempi (anziché una presa di distanza) col trasferimento familiare da un quartiere bene (via Boccaccio) a quello pericolosissimo su Piazza Vetra, epicentro della tossicodipendenza – indotta previa criminalizzazione della cannabis e distribuzione di eroina quasi gratis. Un diverso Bellocchio (o chi per lui) avrebbe potuto inferirne una sorta di preparazione dell’ambiente all’affaire Moro – di lì a poco il rapimento e l’esecuzione – Anna si guarda dal dare interpretazioni (“Il rapimento Moro è diventato un romanzo d’appendice, che teneva tutti col fiato sospeso”). Una bulimia cosciente, continuando a subire, finché potrà ‘competere’ col padre affiliandosi, anziché all’Autonomia, a Lotta Continua (“anche se avevamo la sensazione di essere arrivati sulla scena a spettacolo finito, quando le cose belle ed eccitanti erano già passate”).

Non insensibile alle canne o al Kerouak di On the Road, Ann saluta ottimista il padre (“stasera sei fuori”) il giorno dell’arresto con l’allucinante accusa del sequestro e assassinio di Moro. Sappiamo invece che dovrà passare anche l’isolamento, prima che cada il folle “teorema” è lui il capo di tutto, e Anna avvezzarsi ai viaggi di diciannove ore a Roma e sei di Rebibbia per un’ora di colloquio. “Il carcere si ergeva a riaffermare la santità della famiglia, rendendo un detenuto, che non poteva vedere nessun altro, completamente dipendente dai familiari”. Passa anche l’appello di Eco, Vattimo, Bertolucci. Per il 15° compleanno, Anna riceve un telegramma dal padre, trasferito a Palmi – dove i colloqui saranno attraverso il vetro, infine Trani. In compenso avrà un affettuoso incontro con Doni, la donna di Parigi. La strage dell’80 alla stazione di Bologna passa quasi inosservata, e New York a 15 anni è davvero videale, pop, no satisfaction, barboni, fino al “verde acido” di Santa Cruz, dove naturalmente avrebbe voluto restare per sempre.  

Con la nuova scuola di regia, l’Itsos, arriva la “Milano da bere” (con un po’ di coca) – parallelamente a infiniti altri arresti – ma finalmente anche la lettura di Baudelaire, Rimbaud e Artaud. Ed ecco il Corriere titolare “Negri a capo della rivolta al carcere di Trani” ! Invece quelli del 7 aprile, in quanto in attesa di processo, si erano dissociati dalla rivolta, ma perciò pestati dai mafiosi, e poi dai “corpi speciali” penetrati dal tetto – Negri soltanto salvo per miracolo. “Il mondo stava impazzendo” (attentato al Papa), ma a Parigi, eletto Mitterrand, c’erano novantamila esiliati. Ann ora registra ogni cosa, come i Weather Report al Palalido, gli scontri e tutto il resto. Ma “le fabbriche chiudevano e gli operai avevano perso il loro mondo”, “c’erano sempre più modelle e modelli americani”, e il matrimonio di Carlo d’Inghilterra e Lady Diana. Ann sopravvive fra allucinazioni e rassicurazioni del padre, ma anche di ragazzi ­– uno le svela che le pillole per dimagrire servono piuttosto a sballarsi. Muore la nonna, dal 7 aprile erano state messe dentro ventimila persone, allora “Kafka mi sembrava l’unico a capire come funziona il mondo”. E diventa “dark”, una sfumatura più leggera di punk, sicché con le sue amiche compila cassette di musica allineata a Berlino, Amsterdam, Londra. La mamma litiga con Scalfari a Repubblica, ma l’Italia vince i mondiali, e persino al Toni dei giovani fanno fumare una canna, mentre a Londra tutti gli italiani rubano. In vista dell’esame di maturità, che coincide finalmente con l’inizio del dibattimento sul 7 aprile, Ann partecipa a una festa in cui sono tutti in acido: “era tutto così incredibilmente meraviglioso che mi commuoveva”. Poco dopo, sulla fortezza del Deserto dei Tartari, con una platea semivuota ma presente Rossana Rossanda, “finalmente abbiamo visto mio padre dietro le sbarre, sembrava un uccelletto”. La polizia picchia tutti nella sede del Partito Radicale, ma finalmente vota anche Anna, per suo padre. Negri raccoglie 55 mila preferenze e si commuove, l’indomani è fuori da deputato. Ma quando esce è “completamente pazzo, con la testa ancora dentro”. Gli affibbiano una scorta ineliminabile, che si eclissa una notte soltanto, la notte del voto sull’immunità parlamentare – senza di cui egli non può aiutare i compagni ancora dentro. Il voto arriva dopo un paio di settimane, come la crudele risposta del destino: immunità negata per 262 voti contro 258, con i 7 radicali astenuti ! Per fortuna, da Punta Ala un battello raccoglierà un sacco, destinazione Costa Azzurra. Anch’io avrei scelto di stare in quel sacco.


[1] Miei saggi sono in parte reperibili in https://independent.academia.edu/NicolaLicciardello.

Ritmo- Bologna Rev.pptx

29 aprile 2023




MAJAKOVSKIJ S-FINITO

31 marzo 2023

Martedì 28 marzo 2023

S-finito ieri sera, 2 mesi di lettura per seicento pagine, il Majakovskij di Bengt Jangfeldt, miracolosamente ancor vivo Autore amico dei suoi Protagonisti, il libro della sua vita, il riscatto del più grande e così mal s-finito Poeta del Soviet, è così terribile la marcia funebre della sua “terza morte” – quando la commemorazione risorge con la perestroika, 60 anni dopo il suicidio. La quantità delle foto che si susseguono a di-mostrare ogni singola ora del protagonista, ogni sua debolezza, ogni sua ineluttabile verità, fino all’ultima lite con Nora, nella pretesa che per lui lasciasse all’istante il teatro e il marito, fino alla bocca rimasta aperta steso sul divano col foro rosso sul cuore nella camicia, forse già decerebrato… l’imbarazzante cervello di un kilo e 700 grammi, quello di Lenin solo 1300 grammi… mi ha fatto sentire come non-mai la Morte, la sua definitività, irreversibilità… incontrollabilità. Lili e Osip spensierati ad Amsterdam, dopo che per due mesi abbiamo assistito ad ogni piega delle loro labbra, ad ogni parola detta, ad ogni pensiero e dubbio trascorso nella loro mente… “Se fossimo stati a Mosca non sarebbe successo”, l’unico e ovvio pensiero inespresso, e il suicidio di Lili stessa, 48 anni dopo, già previsto da Majakowskij – vecchio mai, fatale sempre.

Merita il Nobel per la Letteratura Bengt Jangfeldt, per questa sua implacabile pazienza, per l’infinita delicatezza con cui narra le intenzioni e le espressioni dei suoi soggetti, Umanità amica e nemica, soccorritori e delatori, vittime e carnefici – merita il Nobel la sua eccezionale imparzialità, la restituzione, alla Cultura mondiale, del cuore dimenticato e improponibile della Rivoluzione – quella cocente del Novecento, calda, attualissima e impronunciabile della Russia. Le sue decine e decine di personaggi, il loro ininterrotto flusso in infinito chiaruscuro, politico, culturale, morale.

Sanza infamia e sanza lodo: proprio quello che un Dante disprezzava qui è l’assiduo protagonista, tra Mosca, Leningrado, Berlino, Parigi, New York. La ricchezza delle foto che documentano ogni pagina, ogni svolta di scena, ogni comparsa fanno di questo libro uno strumento di comprensione unico e insostituibile, e una commozione immensa trabocca alla sua lettura, come ai capolavori tolstojani, mentre prende corpo un insospettato Majakovskij, di estrema complessità, lucidità,  generosità, preveggenza. Il suicidio non è un improvviso raptus, ma gli è archetipo e guida, destino. Attentamente programmato e rimandato fino al giusto momento storico. Con l’avvento del primo Piano Quinquennale di Stalin, che pure lo stima e lo protegge, non vi è più spazio per la Poesia.

CHI FA LA PACE

1 marzo 2023

IL (MIO ?) PIANO DI PACE

0,1. Voglio scrivere anch’io un Piano di Pace – un tempo lo scrivevano solo i presidenti o i segretari di stato, quand’erano degni di questo nome, quando avevano il potere su qualcosa, e in primo luogo sulla Parola. Oggi anche facebook è pieno di analisi, proposte, proteste e mille riprese. Ma tanto meno lì la Parola ha un potere. Non ce l’ha perché ci sono cose che si fanno, ma non si dicono, e nemmeno si scrivono: dettagli sessuali, tecniche di rapina, segreti di viaggio… Inoltre, la cosa più evidente di questi tempi, che il re è nudo, si ripete per abitudine, ma non se ne comprende il vero significato. Appunto perché esso è indecente: non solo il re è fatto come tutti i sudditi, non è divino e ha gli stessi vergognosi attributi che essi nascondono a se stessi, ha gli stessi bisogni, gli stessi vizi, le stesse inconfessabili propensioni agl’inganni, al tradimento, alla corruzione. Non si potrebbe dire che il principale alleato e “protettore” di uno stato è colui che lo abbatte e lo manda al diavolo. Eppure oggi la brutale arroganza del potere si permette di proclamarlo: “Qualsiasi problema, ce la faremo, toglieremo di mezzo quel gasdotto”, e che “l’Europa si fotta!” aggiunge graziosamente una signora dell’Ufficio.

2. E l’Europa si è fottuta. Gradualmente, inesorabilmente, prevedibilmente. Non si dovrebbe poter dire che il Canceliere dello stato trainante d’Europa è colui che ha taciuto, al tempo dell’armistizio con la Russia, per dare il tempo agli occupanti Nato in Ucraina di organizzarsi, di armarsi al fine di scacciare la stessa Russia dal consesso delle nazioni, di annichilirla – militarmente, moralmente, politicamente. Ma è lo stesso cancelliere che lo rivela, affossando il suo stesso passato, dichiarando la sua rinnovata fedeltà alla Santa Alleanza, cristiano-occidentale contro l’Alieno, il Folle, il Diavolo. Perché ? Un narcisimo ideologico-feticista über alles ? è semplicemente questo narcisismo la minuscola soddisfazione universale da esporre a tutti ?

3. Nessun compromesso, e tanto meno pace è possibile con chi si disprezza. Il presente non è il Risorgimento dei poveri Ucraini, mandati al macello da un cinico Commissario del Potere: questa è la GUERRA DELL’OCCIDENTE CONTRO L’ORIENTE. Noi, come Occidente tutto insieme, disprezziamo l’Oriente tutto insieme, ancora come 2500 anni fa, ai tempi degli eroi greci contro i Persiani, “barbari” perché non parlano greco ! è questa la semplice, ineludibile verità: disprezziamo l’Oriente, perché ci fa paura la sua saggezza, la sua fedeltà all’armonia e alla natura. Disprezziamo ciò che non capiamo e che non proviamo nemmeno ad assaggiare (tranne i pochi veri eroi), perché è troppo complesso, troppo serio, troppo vero. Ci ricorda troppo da vicino tutti i nostri problemi: ecologici, psicologici, sociali, tecnologici – mentre sarebbe l’unica cosa da fare per poter iniziare un dialogo: CAPIRE IL LINGUAGGIO DELL’ALTRO. Ma oggi, come fosse troppo tardi, si è scelto di fare la guerra definitiva all’Oriente, di rovinarlo per sempre. Ma, se pure rimanesse l’Occidente soltanto al mondo, che comunque è rotondo, non rimarrebbe anche un qualche Oriente dello stesso Occidente ?

4. E’ difficile innanzitutto fare la pace con se stessi, perché troppo abbiamo sacrificato la nostra stessa natura nella “colonia penale”, e troppo alla stessa colonia penale abbiamo affidato il riscatto dell’Europa – che si è rovesciata in colonia degli antenati, nella vergogna indicibile degli eccidi, degli olocausti, degli stermini di massa che ci siamo scambiati nella storia. E chi più ne ha più ne metta, sono questi i degni titoli che ogni giorno esponiamo e rivendichiamo, la fierezza dell’ annientamento. E perciò è risalito alla ribalta il nichilismo. Viene prima la struttura, la produzione, la guerra e i suoi eccidi, o prima la sovrastruttura, l’ideologia per cui la guerra si organizza ed attua ? Lascio ai filosofi la risposta, mi accontento del problema. So che forse è troppo tardi per lasciare Cesare, Napoleone, Kennedy – e soprattutto Dylan, Marilyn, il ’68, e cominciare a studiare il Vedanta e Lao Tsu, se non lo si è già fatto. Certo sarà possibile oltre l’intelligenza artificiale.

IL (MIO?) PIANO DI PACE (continua)

5.Ora è troppo tardi per risalire alle cause lontane, alle ideologie che precedono le guerre, non ci si può affrontare, prima o per fare la pace… la pace non si fa confliggendo, si fa accettando di non essere completamente d’accordo, diciamo che basta il 50% ! sul fatto che c’è questo bene supremo, più in alto di qualsiasi popolo e nazione particolare: si fa (terra terra) per NON CONTINUARE AD AMMAZZARSI, SOSPENDENDO QUESTA PRATICA IRREVERSIBILE PER VEDERE SE E’ POSSIBILE CON- VIVERE. Qualcuno on-line ha approvato il mio riferimento all’Oriente come metafora di una pace possibile. E indipendentemente, tanti altri, televisivi e non, in Italia e nel mondo cominciano a manifestare stanchezza per la guerra. I media non possono troppo a lungo ignorare la maggioranza degli italiani, contrari all’invio di armi in Ucraina, e perplessi sull’intransigenza e maleducazione del suo leader (ex-attore), che comincia a risultare antipatico a molti, in quanto potenziale attizzatore di una guerra nucleare, sgradita alla maggioranza della gente comune (forse suicidamente appetibile a qualche gruppo americano). Certo l’insistenza del leader ucraino non è condivisibile a settori di Forza italia, a cominciare dal suo capo, e pubblicamente per il senatore Gasparri su La7 (incredibilmente pacata la Selvaggia) in dialogo con l’artista Moni Ovadia, il quale da tempo si affanna a distinguere la Bibbia dall’aggressiva politica israeliana (ultimo mezzo secolo), e a proporre un qualsiasi compromesso di pace in Ucraina.

6. Ma non solo politici e artisti e non solo in Italia: nientemeno che generali americani e il New York Times! Tradotto da “piccole note” è commentato un articolo di Sergej Radchenko dal titolo Modello coreano, in cui si profila un “congelamento” del conflitto, quindi senza alterare le avanzate territoriali russe (Donbass e Crimea), possibilmente in vista di un armistizio divisivo “alla coreana”… addirittura vi si cita la circostanza storica per la quale la Corea si trova ancora divisa in Nord e Sud. Vi si spiega cioè che l’invasione della Corea del Sud da parte della Corea del Nord, suggerita da Stalin (e quindi l’avvio nel 1950 alla Guerra di Corea americana), fu favorita dai “segnali fuorvianti provenienti dagli Stati Uniti. Primo tra tutti la famosa dichiarazione del Segretario di Stato Dean Acheson del 12 gennaio 1950, che escludeva la Corea dal perimetro difensivo americano. Combinato con intercettazioni di intelligence, ciò fu sufficiente per rassicurare Stalin – a torto – che gli Stati Uniti non sarebbero intervenuti in Corea”. La stessa meccanica in Ucraina: prima del 24 febbraio 2022, Biden rispose a domande su una possibile invasione russa, spiegando che l’America avrebbe difeso ogni centimetro dei Paesi Nato, ma siccome l’Ucraina non era parte della Nato… IL SISTEMA DELL’IPOCRISIA OCCIDENTALE è ANCORA IDENTICO.

7. Ed è per questo che il Piano di Pace cinese, curiosamente registrato da Kiev, è stato respinto dal segretario della Nato Stoltenberg e a ruota dal commissario agli esteri UE Borrell: perché l’amico Xi del nostro nemico Putin è nostro nemico, suona il punitivo approccio occidentale. Anzi, definendolo “non un piano di pace, ma un insieme di punti vista per la de-escalation”, si sminuisce o si disprezza la struttura di questo Piano – formulato dopo un anno di vano spargimento di sangue, e articolato come espressione di una nuova filosofia eco-pacifista mondiale. A differenza dell’ONU, (con sede guardacaso a New York), che nel 1946 propose la Pace dei Vincitori della II guerra mondiale, la proposta cinese del 2023 nasce da un paese non-belligerante – certo alfiere di un NUOVO ORDINE MONDIALE, la vera ragione del suo rifiuto da parte dell’occidente. Sono passati circa 80 anni, quasi un secolo, e quasi 5 o 6 secoli dal predominio coloniale dell’Occidente, il quale costituisce una minoranza, circa il 20% della popolazione del globo. Il fatto che si possano DIRE I PROBLEMI è la bellezza dell’occidente, ma il fatto che i problemi rimangono, a danno della MAGGIORANZA del FUTURO DELL’UMANITA’, non è più tollerabile.

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Certo, ancora una volta il problema è (anche) FILOSOFICO: l’ESSERE dell’occidente contro il DIVENIRE dell’oriente. Non sono bastati Eraclito, Spinoza, Marx, le varie Rivoluzioni – e infine la crisi della scienza (a partire da Heisenberg) e della filosofia (con tutto il Pensiero Debole), a distruggere le certezze politiche dell’Europa e dell’America, cioè il LIBERISMO.

Ma torniamo al piano cinese. E’ proprio l’insieme degli aspetti che ne fa un discorso nuovo. Per esempio, la decisione con cui si afferma che la “GUERRA NUCLEARE NON PUO’ ESSERE COMBATTUTA” (8) e la cura delle centrali nucleari è una priorità condivisa. Altrettanto dicasi per quanto riguarda le sanzioni: STOP ALLE SANZIONI UNILATERALI (10), perché “le sanzioni unilaterali e le pressioni estreme non solo non risolveranno i problemi, ma ne creeranno di nuovi”. Non c’è chi non veda che l’abuso delle sanzioni negli ultimi 10-15 anni, da parte di Usa ed Europa, non solo mostra l’illegittima arroganza giudicatrice di alcuni paesi nei confronti di altri, ma suscita risentimenti e ritorsioni. Ma ancora più basilari sono i primi punti: il primo, la garanzia della sovranità, indipendenza e integrità territoriale si fonda sul fatto che, come tutti gli uomini, così TUTTI I PAESI SONO UGUALI, INDIPENDENTEMENTE DALLE LORO DIMENSIONI, FORZA E RICCHEZZA. Altrettanto è di fondamentale importanza il secondo punto: l’ABBANDONO DELLA MENTALITA’ DA GUERRA FREDDA, quindi di blocchi militari a scapito di qualche paese – abbracciando invece l’idea di “sicurezza globale, cooperativa e sostenibile” nel LUNGO PERIODO. Tutto ciò senza ricorrere ad alcuna ideologia pacifista, irenica e nemmeno pseudoscientifica come Gaia. Sì invece al cessate il fuoco, ai colloqui e a tutti i possibili provvedimenti umanitari, inclusi i corridoi alimentari, lo scambio di prigionieri e la ricostruzione. In questo quadro, persino l’accenno alla “salvaguardia della pace e della stabilità del continente euroasiatico” (al punto 2) appare concreto e non-intrusivo.

La proposta è un grande passo, e la responsabilità di una sua non-accettazione diventerebbe insostenibile. Insostenibile come l’attesa al varco degli Usa su Taiwan, per l’ennesimo e definitivo progetto di supremazia mondiale una volta ELIMINATI tutti i concorrenti. Invece sull’esclusione occidentale, verrà l’inclusione orientale.

DUGIN CONTRO LA FINE. II (conclusione)

5 luglio 2022

“Solo una crociata globale contro gli Usa, l’Occidente, la globalizzazione e la loro più completa espressione politico-ideologica, il liberalismo, potrà essere una risposta adeguata”[1] al nichilismo contemporaneo. Non escludo che una simile vittoria possa implicare la rimozione dalla faccia della terra di quell’aura spirituale e fisica da cui ha avuto origine l’eresia globale, quella che insiste sul fatto che ‘l’uomo è misura di tutte le cose’ (Protagora) aggiunge veemente Dugin. E’ singolare che l’origine del Liberalismo, cioè del Male assoluto, sia fatta risalire così indietro e imputata all’Uomo – del quale l’appena scomparso Peter Brook diceva: « L’essere umano è il solo esoterismo che merita d’esser decifrato ». Per Dugin l’esoterismo è il pensiero tradizionalista, quello degli Evola, dei Guenon, dei Burkhardt, ma non è direttamente coinvolto nella pratica della 4TP.

La parola “crociata” fa pensare a una guerra senza quartiere contro l’Occidente, ma si tratta essenzialmente di un processo storico, in qualche modo destinale, inevitabile. La 4TP non è un progetto ben confezionato da schierare contro il liberalismo, di quest’ultimo è in qualche modo l’ombra, la risultante del suo negativo, politicamente e antropologicamente. Da questi risvolti si può partire per indagarne il cuore profondo, prima che da quelli filosofici (infatti, fra i mille riferimenti, ricorre La piega di Deleuze).

E’ insomma dalla crisi ineluttabile, presente, dell’uomo postmoderno che Dugin inizia a proiettare i caratteri del nuovo soggetto politico, precisamente dall’idea di genere. Se nel femminismo liberale (1TP), vien data alle donne una forma standard di eguaglianza, il cittadino femmina, che deve semplicemente copiare i requisiti e comportamenti maschili (la donna guida l’auto imitando il modo di guidare dell’uomo); il comunismo (2TP) si propone di trasformare la sessualità in modo post-borghese, come eguaglianza radicale dei sessi, e quindi, a livello di Bourdieu o Negri e Hardt[2], come liberazione del proletario dal sesso, in quanto costruzione sociale gerarchica: desiderio senza sesso, libertà dal sesso; infine nel nazifascismo (3TP), vi è un eroismo della mascolinità in versione aristocratica (Evola), e un femminile tipo Juni-klub o nella Rivoluzione conservatrice: il ‘premoderno’ del matriarcato nordico di Hermann Wirth, seguace di Bachofen.

La 4TP deve immediatamente rifiutare tutte queste connotazioni, il suo soggetto è dunque: 1. Non adulto, come i “Fratelli Semplicisti”, coltivatori e venditori di erbe medicinali, in quel “Grande Gioco” di René Daumal, Roger Vaillant, Roger-Gilbert Lecomte e Robert Meyrat; 2. Non bianco, come nell’antropologia strutturale di Boas e Lévi-Strauss; 3. Contadino, per esempio l’idea etnosociologica del movimento russo narodnik; 4. Trasgressivo, come Georges Bataille e la sua rivista “Acephale”, l’irrazionale filosofico e poetico, da Hölderlin a Nietzsche ad Artaud; e finalmente 5. Non-uomo: infantile, non-bianco, selvatico, ma anche super-civile, tantrico, musicale; 6. Androgino; 7. Angelomorfico: androide femmina, Atalanta Fugiens, Beatrice. 8. “E in più: la domanda che nemmeno Heidegger ha sollevato – se il Dasein abbia un sesso ? Che sesso ha il Dasein ?” Qui (con grande ironia) Dugin introduce quel soggetto radicale di cui a volte parla come di un Atman-Brahman vedantico: “il Dasein, l’heideggeriano Esser-ci è il centro, il soggetto della 4TP”.

E, riprendendo il discorso in 8 punti, si chiede come ‘funziona’ questo Dasein nella globalizzazione: “Il genere radicale e le trasformazioni di genere dell’Epoca Postmoderna. Entropia dell’Eros”. Intanto, osserva Dugin, nel Postmoderno esiste una convergenza delle tre tendenze di genere – neoliberale, neomarxista, neonazista. “La tendenza neoliberale aspira a massimizzare la figura normativa di un cittadino-borghese trasferendola a tutta la popolazione della Terra: questa è la teoria dei diritti umani. Un cittadino razionale mascolino è concettualizzato come un ‘umano’, o un ‘individuo’ che perde il contatto con il sesso anatomico e sociale, trasformandolo in una figura imperativa globale.” La tendenza neomarxista “insiste nel convenzionalismo sociale del sesso, che diventa attivamente apparente nella legittimazione dei codici omosessuale e transgenere. La libertà dal sesso è realizzata attraverso il suo carattere ludico e permanente. Entrambe le tendenze si uniscono nel neoliberalismo di sinistra con la sua sessualità trasgressiva (gauchisme, moltiplicata dall’individualismo). L’altra direzione dell’ultraliberismo è il nazi-satanismo, sadomaso schizoide”.

Qui Dugin cita come archetipo il “Fa’ ciò che vuoi con chi vuoi” di Aleister Crowley, accompagnato da un principio di prestazione finanziaria e di intrattenimento gay, e per esempio La caduta degli dei di Visconti (1969) e Il portiere di notte (1974) della Cavani, espressioni di estetica nazista + perversione sessuale. Sorprende in questi richiami l’assenza del più provocatore fra gli artisti italiani, Pasolini? Vediamo. Intanto, prosegue Dugin, il panorama attuale è un’esplosione dell’uomo borghese, di cui si salva solo la visibilità virtuale del dominio, mentre sta avvenendo una rapida entropia dell’Eros. E spingendosi ancora più in là, Dugin plaude ad escatologie vecchie e nuove, come quella del Kalki Purana indiano o della smorfia d’addio nel seguito dell’Anticristo.

Ritornando alla contrapposizione della 4TP, ecco che all’opposto del dominio postmoderno della “superficie (fusione soggetto-oggetto, coscienza-corporeità, schermo TV, pelle, vetrina, copertina patinata, sensore, iPad etc.), la pratica della 4TP si costruisce in altro modo: è un’unione di due abissi, alto e basso, una matrice prelogica dello spirito che salva il libero caos, unisce il dolore della terra e la fredda ironia del blu celeste […] la trasgressione del più in alto del sopra e del più in basso del sotto, dove sono nascosti il dietro del cielo e la faccia della terra […], l’invocazione (clamatio) de Profundis et ad Profundum. Il partito della Quarta Teoria Politica non cambia il mondo esistente e non ne edifica uno nuovo. Esso rifiuta il mondo in essere, l’esistenza, riconoscendolo come un costrutto chimerico, tremante e infruttuoso. Lascia il mondo da parte, lo abolisce […]

Fra le pratiche di demenza, riconosce l’homo demens di Edgar Morin, Bataille, Artaud, e poi Foucault, Barthes, Deleuze, Sollers, Blanchot, Durand, Baudrillard e molti altri […] La pratica della Quarta Teoria Politica suggerisce un modello di demenza verticale. La demenza pre-logica eroico-diurna, che implica il totale controllo – non dal lato della coscienza, ma dal lato dell’Angelo di Rilke, […] La demenza verticale è integrale, basata sull’intero immaginario. La Notte e il Giorno sono in contatto fra loro in altro modo che nella cultura, che conduce a sistemi logocentrici. Questo è un cortocircuito dei modi d’immaginare. L’estensione dell’asse verticale della dieresi eroica a entrambi i lati – è sopra la cima e sotto il fondo”.

In questa paradossalità, non palesemente mistica, non sfuggono a Dugin gli ostacoli più duri e concreti all’inverarsi della 4TP. In primis, “come superare l’individuo: con il metodo dell’auto-trascendenza mediante uno sforzo della volontà, o attraverso un incontro esistenziale con la morte e la solitudine assoluta”[3] è la risposta classica. Poi “Ultimo punto. L’Europa è l’Occidente, e il declino è la sua essenza. Raggiungere il punto più basso della sua discesa è il destino dell’Europa. Questo è profondamente tragico, e non qualcosa di cui andare orgogliosi. Così la 4TP è a favore di un’idea europea in cui l’Europa è intesa come una sorta di comunità tragica (come per Georges Bataille)” – o più recentemente, direi come per Massimo Cacciari – “una cultura alla ricerca di se stessa nel cuore dell’inferno”[4] conclude Dugin – non prima di aver sottolineato che per Heidegger l’esistenza è finita, il suo mistero ultimo e più alto è in questa finitezza, che si manifesta nell’Ereignis, nell’Evento: “L’Ereignis è esattamente la fattività della prassi.  L’Ereignis è l’escatologia. In Holzwege, Heidegger scrive correttamente <escatologia dell’esistenza>. La pratica della 4TP è la pratica escatologica par excellence.[5]

Ma se, per l’ennesima volta, si vuole avere una descrizione storico-ideografica della 4TP, Dugin ci accontenta: “La 4TP è contro qualsiasi tipo di universalismo, e respinge anche l’eurocentrismo. […] La storia europea è stata sempre basata sulla pluralità delle sue culture e sull’unità delle sue autorità spirituali. Questo è stato distrutto, prima dalla riforma protestante, poi dalla modernità. La liquidazione dell’unità spirituale europea è in parte all’origine del nazionalismo europeo. Pertanto la 4TP sostiene l’idea di un nuovo impero europeo come impero tradizionale con un fondamento spirituale, e con la coesistenza dialettica di vari gruppi etnici. Invece degli Stati nazionali in Europa, un impero sacro: indoeuropeo, romano, greco.”[6] (corsivo nostro).

Un impero dell’Evento dunque, del disvelamento nell’Ereignis, in cui è vitale il Kairos, il momento opportuno per agire, né troppo presto né troppo tardi, perché la caduta degli Usa provocherà la caduta degli altri minori, e “noi non dobbiamo essere fra quelli”. La 4TP è pluralista, ogni popolo ha il suo ethnos, il suo Dasein… per gli iraniani sarà la venuta di Mahdi, per gli Aztechi il ritorno di Quetzalcoatl, Kalki per gli indiani, Maitreya per i Buddhisti, il risveglio dell’Imperatore sopito per gli europei, “per noi russi l’apparire di Santa Sofia, epifania femminile del sacro logos. Lasciate che i popoli riesumino i loro dei e li facciano risorgere. Gli dei uccisi e scacciati dalla strage della modernità. Perché come scrisse Fiedrich Jünger, dove non ci sono più dei, compaiono i titani”.[7]

Può sembrare a volte incerto, ondivago, reticente o imprudente, ma un instancabile Dugin da decenni ormai ripete la sua (facile) dimostrazione del nichilismo contemporaneo, riformulando la sua Quarta Teoria Politica, che ovviamente non può essere ben programmatica come le teorie capitalistiche finanziarie… Da quando è in corso l’operazione speciale in Ukraina più spesso appare in programmi tv, apertamente spiegando le ragioni dell’operazione, e di fatto incarnando quel katechon imperiale il cui scopo tradizionale è ritardare l’avvento dell’Anticristo e quindi la Fine del mondo. Anche perché, con tipica postura da trickster (o “divino briccone”) fra l’altro dichiara che “Se qualcuno non lo implementerà, il tempo finale non accadrà mai.”[8]

NICOLA LICCIARDELLO

 5 luglio 2022


[1] Aleksandr Dugin, Quarta Teoria Politica, NovaEuropa Ed. Milano 2017; Aspis Ed. 2020, p.222.

[2] Il testo (pp. 315-316) accenna a Pierre Bourdieu, autore del concetto di campo, e più volte a Impero (Roma 2003) di A. Negri e M. Hardt, postmodernisti di sinistra, che nella pratica del sabotaggio vedono la liberazione dal sistema.

[3] Dugin, op.cit., p.355.

[4] Ivi, p. 359.

[5] Ivi, p. 334.

[6] Ivi, p. 358.

[7] Ivi, p. 379.

[8] Ivi, p. 333.

DUGIN CONTRO LA FINE

16 giugno 2022

La Quarta Teoria Politica. I

di Nicola Licciardello

Italia oggi così ubriaca per il crollo d’affluenze ai referendum, e per il crollo di Lega e 5 stelle alle comunali, da quasi dimenticare la guerra della gloriosa Ukraina, la carestia mondiale dovuta al sanguinario Putin, come pure i balletti di Ursula e il Drago. Mentre il quasi premio Nobel per la Pace Zelensky piange per le armi promesse e non mantenute, o per non saperle usare, i russi sparano su chi non è ancora scappato fuori dai velenosi rifugi del Donbas, tanto che qualcuno di “Storia Segreta” (Sinistra in Rete 14 giugno) si spinge a decretare che La guerra è finita e che la Russia ha vinto. Situazione tuttora virtuale, ma certo probabile e conseguenziale.

E se “Storia Segreta” non esita a indicare in due esponenti della lucidità ebraica, Carlo De Benedetti ed Henry Kissinger, gli autori che per primi hanno definito la presente guerra dell’Occidente contro la Russia un “errore strategico” – in primis per l’ovvia conseguenza di favorire un’alleanza Russia-Cina, poi per l’incompetenza valutaria (il rublo, agganciato all’oro, premiato sul dollaro) infine per l’eccessivo squilibrio geopolitico di un’Europa occidentale succube della Nato – c’è chi aveva previsto alla lettera gli attuali eventi bellici, in effetti da Putin assai posticipati rispetto al 2014: si tratta di Aleksandr Dugin, “tradizionalista” moscovita e grande ammiratore della storia d’Italia, di cui parla anche la lingua.

Nella Prefazione all’edizione italiana (2020) de La Quarta Teoria Politica (forse il suo trattato più organico) Dugin infatti mostra una conoscenza anche della filosofia italiana contemporanea. Di Massimo Cacciari, ad esempio, riferisce su quel problematico ma suggestivo Geofilosofia dell’Europa (1994) che ribadiva il destino di un’Europa Arcipelago[1], mentre di Giorgio Agamben elabora una geniale lettura ‘sincretica’, in cui la “vera natura politica della Modernità è la nuda vita del lager”.

Correttamente adottando la denuncia agambeniana dello “stato di emergenza” quale denominatore comune prima di Fascismo e Comunismo quindi dello stesso Liberalismo attuale –  mostrandone quindi il comune carattere totalitario – Dugin salta poi a una doppia conclusione: da un lato, con la fine della storia di Francis Fukuyama (1992), additando nell’implosione dell’Unione Sovietica non il trionfo del vincitore americano, ma l’inizio del suicidio politico dell’umanità, nella figura della “piccola borghesia universale”.

Ma dall’altro lato, manifestando una radice heideggeriana di Agamben, col designare il qualsiasi di quest’ultimo al posto dei classici ogni e tutti del liberalismo filosofico, Dugin riafferma una potente risposta positiva, perché il qualsiasi corrisponde al latino quodlibet, “il libet che deriva dalla stessa radice della parola russa ljubov’ (amore) e di quella tedesca Liebe[2]. Il totalitarismo liberale, prosegue Dugin, non ha autorità su questo sottile elemento, che non è l’individuo, concetto totalitario come altri concetti politici, ma “qualcosa di mobile, sottile e indefinito, come un’impercettibile incertezza amorosa-volitiva (quasi un’aureola)” onnipresente ma non razionale. Su questo impalpabile dunque arditamente Dugin fonda una “metafisica del populismo”, quale Logos sostitutivo degli ismi dell’ultimo millennio.

E’ però già dalla Postfazione (1914) alla stessa opera, che Dugin illustra le ragioni della Guerra alla Russia nella sua dimensione ideologica[3], cioè per “incastrare Putin e salvare l’ordine liberale”. Qui, prima di partire con le sue puntualissime previsioni, egli elenca le caratteristiche dell’unica (“pensiero unico”) ideologia dominante rimasta, il liberalismo:

° individualismo antropologico: l’individuo è la misura d’ogni cosa;

° fede nel progresso: il passato era peggiore del presente, il futuro sarà migliore;

° tecnocrazia: sviluppo tecnologico e sue concrete declinazioni sono le misure essenziali per        giudicare il valore di una società;

° eurocentrismo: le società euroamericane sono considerate il banco di prova per tutta l’umanità;

° economia come destino: il libero mercato è l’unico sistema economico normativo – tutti gli altri vanno necessariamente riformati o distrutti;

° la democrazia è il governo delle minoranze: che si difendono dalla maggioranza, sempre sul punto di degenerare nel totalitarismo o nel “populismo”;

° la classe media è l’unico attore realmente esistente in campo sociale e l’unica norma universale, al di là del fatto che l’individuo abbia o meno raggiunto tale status;

° globalismo inclusivista: gli esseri umani sono in sostanza tutti uguali, con l’unica distinzione della loro natura individuale – il mondo dovrebbe dunque ruotare intorno ai perni dell’individualismo e del cosmopolitismo, in altre parole sulla “cittadinanza globale”;

Il liberalismo, soggiunge Dugin, può essere di destra, di sinistra o radicale, ma è fondato sul tratto etnico anglosassone, di cui la NATO costituisce il nucleo strategico della sicurezza: la NATO è liberale per natura, difende le società liberali e combatte per estendere il liberalismo ad altre aree d’influenza.

Qui Dugin commenta: ma la libertà liberale è davvero libertà –di ? o piuttosto libertà –da (tutti i dogmatismi religiosi etc) ? Assumendo questa seconda ipotesi negativa, Dugin rileva l’avversione liberale per “qualsiasi forma di identità collettiva, ogni genere di valore, progetto, strategia, obiettivo, metodo che sia collettivista o meramente non-individualista […] in prima battuta il comunismo e il fascismo, entrambi radicati nella stessa filosofia illuminista (da cui è disceso il liberalismo), che implicavano concetti non-individuali, la classe per il marxismo, la razza per il nazional-socialismo, lo stato nazionale per il fascismo.” Il nemico dunque esiste, è sempre in agguato. Tra il 1991 (la “fine della storia”) e il 2014 (Maidan) sembrava non esistessero più o quasi “stati canaglia” (Iran, Corea del nord, Cuba…), ma proprio lì in mezzo, nel 2001 dei nemici interni (presunti islamici esterni) abbattono le Torri Gemelle, da cui seguono le guerre di coalizione occidentale che conosciamo. Il nemico esterno da cui liberarsi è sempre necessario, altrimenti si scopre l’essenza nichilista del liberalismo, nota Dugin, proprio nei “tentativi di purificarsi dagli ultimi elementi non-liberali rimasti: il sessismo, il politicamente scorretto, la disuguaglianza tra i sessi”.

Ma, come quando si dice che a furia di esportare democrazia negli Usa ne è rimasta poca, il problema è che la libertà di fare qualsiasi cosa a livello individuale genera mostri sub-individuali, “la scoperta del fondamento nichilista della natura umana è l’ultima conquista del liberalismo”, significando la scomparsa dell’umano. Meglio il terrorismo, lo scontro di civiltà, l’immigrazione di massa: “Per salvare le élites liberali, esse devono fare un passo indietro, tornare a fronteggiare società non-liberali […], ed è qui che entra in scena la moderna Russia di Putin: non anti-liberale, né totalitaria, né nazionalista e nemmeno comunista, ma al tempo stesso non ancora liberal-democratica, cosmopolita o anticomunista. E’ piuttosto sulla via per diventare liberale, e sta intraprendendo quella trasformazione che questo implica (trasformismo nel senso gramsciano)”.

Comunque, ragiona Dugin, nel quadro del liberalismo rappresentato dagli Usa e dalla NATO, c’è bisogno di un altro attore, di un’altra Russia che giustifichi la permanenza del campo liberale, e contribuisca a mobilitare l’Occidente, che minaccia di frantumarsi per i suoi conflitti interni. Questo è ciò che ritarda l’irruzione del nichilismo, salva il liberalismo dalla sua inevitabile fine. “E’ per questo che hanno bisogno a tutti i costi di Putin, della Russia e della guerra (corsivo nostro) […] L’Islam radicale di Al-Qaeda era un altro candidato a questo ruolo, però mancava della credibilità sufficiente per diventare un vero nemico. Se ne sono serviti su scala locale: occupazione di Afghanistan e Iraq, rovesciamento violento di Gheddafi, guerra civile in Siria, ma era ideologicamente troppo debole e rozzo. La Russia è un nemico molto più serio. La russofobia è facile da coltivare, anche con mezzi rudimentali. Per questo penso che la guerra con la Russia sia una prospettiva concreta”.

Qui Dugin sottolinea alcune facili previsioni: “1. La maggioranza delle nazioni implicate nell’ordine liberale faranno di nuovo fronte comune sotto la bandiera dell’Occidente liberale nella sua crociata contro Putin l’illiberale; 2. Una guerra contro la Russia rafforzerebbe la NATO e gli europei tornerebbero leali agli Usa, loro protettori e salvatori; 3. L’Unione Europea, che cade a pezzi, tornerebbe a mobilitare popoli volenterosi di difendere i propri valori; 4. La Giunta ukraina di Kiev ha bisogno di questa guerra per giustificare e seppellire tutte le malversazioni che risalgono alle proteste di Maidan, ratificando la sospensione della democrazia, democrazia che avrebbe impedito loro di governare nei distretti sudorientali prevalentemente filorussi; 5. L’unica nazione che non vuole la guerra ora è la Russia, ma Putin non può lasciare che il governo ukraino, radicalmente anti-russo, governi un paese con una popolazione per metà russa e con molte regioni filorusse. Se lo permettesse, perderebbe ogni credibilità a livello interno e internazionale. Di conseguenza, seppur riluttante, Putin accetta l’eventualità di una guerra. E, una volta intrapreso questo cammino, non ci sarà altra via d’uscita che vincerla, questa guerra” (corsivo nostro).

Dugin evita di parlare espressamente di ukraini neonazisti, ma una nota chiarisce che Euromaidan, dal nome della Maidan Nezaležnosti (Piazza dell’Indipendenza) di Kiev, teatro degli eventi, è il nome con cui sono passati alla storia i moti di piazza che, tra la fine del 2013 e l’inizio del 2014, hanno causato la caduta del governo ukraino di Janukovyč, a vantaggio di un nuovo governo occidentalista e russofobo. Un’altra nota chiarisce chi sono i seguaci del nazionalista (nazista) Stepan Bandera. Con 8 anni di anticipo Dugin prevede come saranno trattati Putin e la Russia: “revanscista neo-sovietico”, e “la Russia diventerà l’oggetto da cui il mondo dev’essere liberato. L’obiettivo è liberare prima l’Ukraina, poi per estensione l’Europa e il resto dell’umanità, che sarà dipinta come in balia della minaccia russa, e si arriverà persino a dire che la Russia stessa ha bisogno di essere salvata dalla sua identità illiberale”.

Contro la sua stessa lucidissima previsione, Dugin propone un Piano Rivoluzionario complessivo: “contrastare tutte le provocazioni volte a incastrare la Russia nella sua fase di potenza pre-liberale. Dobbiamo impedire ai liberali di sottrarsi alla loro fine imminente. Piuttosto che aiutarli a temporeggiare, dobbiamo accelerarne il declino. Per farlo, dobbiamo presentare la Russia come una forza rivoluzionaria post-liberale che combatte per un futuro diverso per tutti i popoli del pianeta. La guerra russa non sarà solo a vantaggio degli interessi nazionali russi, ma sarà per la causa di un mondo multipolare più equo, per la dignità e la vera libertà – quella positiva, creativa (la libertà di-) non quella nichilista (libertà da-). In questa guerra la Russia darà l’esempio come tutrice della Tradizione, dei valori conservatori connaturati ai popoli, e rappresenterà la vera liberazione dalla società aperta e da chi ne beneficia, l’oligarchia finanziaria globale. Questa guerra non è contro l’Ukraina e nemmeno contro una parte della sua popolazione, e nemmeno contro l’Europa. E’ una guerra contro il (dis)ordine del mondo liberale. […] Per coloro che sono nella fazione della verità eterna e della Tradizione, della fede, e della natura umana spirituale ed immortale, questo sarà un nuovo inizio, l’Inizio Assoluto.

La più importante delle battaglie, al momento, è quella per la Quarta Teoria Politica. E’ la nostra arma, con la quale impediremo ai liberali di incasellare Putin e la Russia nei loro piani, e facendolo riaffermeremo lo status della Russia quale prima potenza ideologica post-liberale, in lotta contro il liberalismo nichilista, per il bene di un luminoso futuro, multipolare e veramente libero”.

Non si può non rilevare in queste parole, per quanto preveggenti e ispirate, una forte sottovalutazione della forza di propaganda dell’occidente massmediale.

Per quanto riguarda l’intera articolazione della Quarta Teoria Politica, rimandiamo invece alla prossima puntata su questo schermo.

Nicola Licciardello

15 giugno 2022


[1] A livello filosofico ancora più rilevante è la sua interpretazione del cacciariano Angelo necessario (Adelphi 1986): “Cacciari unisce l’orizzonte del sogno comunista alla natura angelica dell’essere umano, la scoperta della quale è l’ obiettivo stesso della rivoluzione” (corsivo dell’autore in La Quarta Teoria Politica, Aspis, Milano 2020, p. XXX).

[2] Dugin, La Quarta Teoria Politica, cit. pp. XXXI-XXXVIII.

[3] Aleksandr Dugin, La Quarta Teoria Politica, cit. pp. 381-395.

LA SVOLTA DELLA GUERRA E IL DIRITTO INTERNAZIONALE

17 Maggio 2022

Nicola Licciardello

Alcuni giorni fa la Finlandia ha chiesto di entrare nella Nato, e il ministro degli Esteri russo Lavrov ha asciuttamente constatato che si tratta ormai dell’aggressione allaRussia di tutto l’occidente. Di un’aggressione quindi con l’intento di cancellazione del nemico.

Che tale fosse l’intenzione degli Usa dall’inizio non è dubitabile, visto lo scatto di propaganda e provvedimenti (sanzioni economiche ed esilio culturale) che hanno coinvolto immediatamente gli Europei, il voto all’Onu etc – in coerenza con l’addestramento di truppe, l’incremento di armi e intelligence Nato in Ukraina già negli ultimi anni. Questa è una guerra ben programmata, la mossa di Putin era attesa e inclusa nel progetto. Il progetto è la cancellazione della Russia, prima di dedicarsi interamente all’ultimo ostacolo per il dominio mondiale, la ‘difesa’ di Taiwan contro la Cina. Anche questo lo davano le previsioni già del secolo scorso.

In questo schema, l’Europa è solo il vecchio fastidio, però facilmente aggirabile, data l’incertezza del nuovo Cancelliere tedesco, l’eccessiva ambizione del Presidente francese, lo status coloniale italiano e, d’altra parte, la voglia di menar le mani del premier britannico. Dopo quasi tre mesi, i bombardamenti russi sono neutralizzati dalle armi occidentali, hanno però finalmente stanato fuori dall’acciaieria Azovsthal gli “angeli” resistenti ukraini. L’Ukraina vince coi suoi film e canzoni.

Ma vince già ‘moralmente’, per l’accumularsi dei “crimini di guerra” russi. Come se gli ukraini non ne commettessero. L’America è sempre così pronta a rilevare quelli degli altri, come se gli Usa ne fossero esenti: in effetti gli Usa, assieme a Russia, Cina, India e Israele, non riconoscono la Corte Penale Internazionale[1], per cui i loro effettivi non possono venir processati, mentre come Stati potrebbero venir giudicati dalla Corte Internazionale di Giustizia dell’Onu (sempre all’Aja), che si guarda bene dal farlo. Tra i pochi crimini di guerra considerati dal (problematico) “Diritto bellico” sono l’uso di armi a grappolo, chimiche e batteriologiche, mentre vengono classificati “crimini contro l’umanità” le torture ai prigionieri, ai civili e al personale medico, e l’interruzione di forniture alimentari.

Si tratta di azioni presenti da sempre in ogni guerra. Certo, sarebbe interessante segno di evoluzione antropologica che tali eventi fossero condannati non da uno speciale (e fumoso) diritto bellico, ma da leggi e consuetudini comuni, così come sono state abolite alcune prerogative del pater familias: ma non dappertutto e non simultaneamente. E quindi l’appello alla Legge quale Potere superiore o divino a poter giudicare gli eventi bellici è istanza profondamente ipocrita, proprio perché è la guerra stessa l’atto immediatamente extra lege in quanto tale. Gli Stati Uniti, ad esempio, sono stati e sono tecnicamente dei fuorilegge per il 90% della loro storia: prima che nel contesto internazionale, già nel loro ordinamento interno, che prevede possesso e uso di armi da guerra ai singoli cittadini (con gli esiti “terroristici” stigmatizzati persino da un Biden).

E’ vero, argomenta Carl Schmitt nel Nomos della Terra, che lo jus publicum Europaeum intendeva superare la “guerra giusta”, tipica delle guerre di religione e della guerra civile, con un ordinamento del diritto internazionale puramente laico e statale, quasi un duello privato tra personae morales[2]  (oltre il quale si estendeva il “grande spazio” del mare libero). Così “in particolare divenne possibile vedere nei prigionieri di guerra e nei vinti non più l’oggetto di una punizione, di una vendetta o di una cattura di ostaggi, trattare inoltre la proprietà privata non più direttamente come bottino di guerra, e concludere infine trattati di pace con ovvie clausole di amnistia.”[3] Parole di buon auspicio dopo l’odierna liberazione, o meglio resa, degli asserragliati nell’acciaieria di Mariupol. Putin non ha ancora perso la sua scommessa.

Già con la Prima guerra mondiale l’ Ordnung del diritto europeo entrava in crisi, perché il dominio dell’aria (guerra nei cieli) e gli strumenti di annientamento superavano l’antica dialettica fra nomos di mare (esempio Inghilterra) e nomos di terra (esempio Germania). Non dimentichiamo che le armi chimiche e batteriologiche, cioè di “distruzione di massa”, si aggiunsero a una piattaforma pandemica, quella famosa “spagnola” mietitrice di un terzo della popolazione (circa dieci volte quella del covid). Si entrò comunque nel principio dell’annientamento del nemico, o della sua assoluta umiliazione (Pace di Versailles 1919), così efficace nei confronti della Germania di Weimar da provocare il revancismo hitleriano e la prosecuzione della prima nella Seconda guerra mondiale. Il principio dell’annientamento non si esaurì con la fine di questa, anzi ebbe un balzo con il ‘genocidio’ nucleare di Hiroshima e Nagasaki, e con la Guerra Fredda fra Usa e Urss, fondata appunto sulla reciproca deterrenza nucleare, cioè minaccia di reciproco annientamento.  Il paradigma americano, adottato nelle guerre asiatiche del 900 (Vietnam, Iraq, Afghanistan, ma anche Libia) è tuttora operativo, dopo oltre un secolo.

Ciò che (ormai non) sorprende è la completa acquiescenza europea ad esso, e il fatto che non vi venga eccepito contro alcun principio di Diritto internazionale. Ancor oggi, ad esempio, non si giustifica da parte europea l’assenza di un principio di opportunità nella supina accettazione dell’adesione alla Nato di Svezia e Finlandia (che chiuderebbe S. Pietroburgo in un lago Nato), come pure avvenne nel 2008 a Bucarest da parte di Italia, Germania e Francia contro l’adesione di Georgia e Ukraina[4]– quando persino nello statuto Nato vi sono precauzioni su un’entrata che possa compromettere l’equilibrio: precauzioni ben raccolte da Erdogan. Questa totale acquiescenza europea agli Usa, che calpesta non solo ogni istanza di pace, ma ogni ragionevole politica di equilibrio mondiale, certo risale alla necessaria accettazione delle sconfitte nazioni Italia e Germania, ma non dovrebbe considerarsi eterna. Purtroppo però, è stata riconfermata sin dalla nascita dell’Unione Europea, come brillantemente oggi ricostruisce su questo periodico Fosco Giannini, presidente di “Cumpanis”. Egli ricorda che in conclusione al summit dei Ministri della Difesa UE di Bratislava (2016) Stoltenberg dichiarò: “D’accordo per l’esercito europeo: ma importante sarà che il suo Comando venga posto nello stesso Quartier Generale della Nato, a Bruxelles.”[5] Dichiarazione senza repliche da parte dei presenti. Ma quando finirà tutto questo ?

La talpa del tempo, cioè del puro istinto di sopravvivenza fisica, scava sempre qualcosa: in barba a tutte le solenni dichiarazioni, non solo alcuni paesi europei stanno pagando l’energia russa in rubli, ma i famosi BRICS stanno rilanciando scambi commerciali in monete alternative al dollaro. E persino la tanto minacciata collaborazione in campo spaziale prosegue.

A proposito, che lingua si parla a bordo della Stazione Spaziale Internazionale ? Scommettiamo che è l’americano: perché, abbastanza banalmente, è forse questa una delle cause più rilevanti, pervasive e mondiali che imprigionano non solo l’occidente, ma almeno i poteri politici, economici e mediatici di ogni continente: la facilità della parola angloamericana, matrice di internet e dell’intera rete nervosa, commerciale e ludica del pianeta – insostituibile anche se traducibile.

Nicola Licciardello, 17 maggio 2022.


[1] L’Aja, operativa dal 2002 secondo il Trattato di Roma 1998.

[2] Fulminante la definizione di guerra di Rousseau ad apertura del suo Contrat social (1762): “La guerre est une relation d’État à État”, “una relazione da Stato a Stato”, dunque una situazione normale e impersonale, non morale.

[3] Carl Schmitt, Il Nomos della Terra, Adelphi 1991, IV., 7, p. 411.

[4] Al suo posto, un’irrisione a Putin: “ah, lo scemo, rifiutava l’Ukraina, ora è circondato !”

[5] sinistrainrete.info/europa/23038-fosco-giannini-genuflessa-agli-usa-e-senza-identita-l-ue-e-un-destino- storicamente-inevitabile.html

2 Maggio 2022

NON QUESTO NE’ QUELLO, SIA QUESTO CHE QUELLO

Con “guerra di religione”, nel precedente articolo, intendevo guerra acerrima e difficilissima (ben arrotata nella r di quasi ogni lingua), radicata nell’animo umano tanto da essere virtualmente infinita, sospesa per alcun tempo e poi ripresa – come quella che ha condotto alla Partizione fra indù e musulmani e ha fatto morire milioni – il digiunante Mahatma Gandhi già di crepacuore prima degli spari. Perché le guerre di religione sono le più cruente ? Perché sono le più ideologiche, ossia nascondono interesssi economici, finanziari, imprenditoriali, oppure vertono sulla proprietà di beni o territori – come quelle fra cattolici e protestanti in Europa nel ‘500, o come le Crociate contro gli Infedeli maomettani, conclusesi infine a Lepanto, ma poco dopo con la disfatta dell’Invincibile Armata cattolica.  Noi occidentali abbiamo poi il tema biblico del fratricidio di Caino che uccide Abele, in Italia riprodotto da Romolo e Remo, fratelli di latte della Lupa. Le guerre di religione sono le più sanguinose perché sorgono fra consanguinei, quelle dinastiche sono le più inevitabili e raramente incruente.

E così quella fra russi e ucraini: uno dei due dovrà uccidere, sterminare l’altro ? Così dicono i capi di stato occidentali, la Nato e quasi tutti i media: se il pazzo aggressore non si arrende, verrà ucciso e il suo popolo sottomesso. Anche se l’aggressore, specialmente nel primo mese di guerra, ha usato ogni cura per risparmiare le vite dei fratelli. E anche se, a livello religioso, le due parti sono molto vicine. Del resto, persino tra i Nemici di sempre, Usa e Russia, potrebbe non esservi un abisso, essendo entrambi fondati su un monoteismo. Ma andando a vedere da vicino, emergono differenze assolute. Oltre Atlantico, la nascita di una Nazione pseudomassonica: lo Stemma degli Stati Uniti, impresso sulla banconota da 1 dollaro, ha l’Occhio di Horus o della Provvidenza che irraggia su una Piramide interrotta di 13 scalini, quanti le colonie nel 1776, con sotto la scritta Novus Ordo Seclorum, “Nuovo Ordine dei Tempi”, e in alto Annuit Coeptis, ossia “(Egli, l’Occhio) approva le (nostre) decisioni”[1]. Ma,  forse non troppo casualmente, l’Occhio è anche sulla banconota da 50 corone estoni e su quella da 500 grivnie ukraine !

Stemma Costituzione Usa impresso sulla banconota da 1 dollaro

E’ interessante come la storia della Russia sia indissolubilmente intrecciata a quella ukraina: inizia infatti intorno al X secolo con la stirpe scandinava dei Rus’, che proprio a Kiev si cristianizza secondo il rito

ortodosso di Costantinopoli[2].  Una cronaca leggendaria tramanda che nel 987 il principe Vladimir, dopo aver consultato i boiardi, inviò messi nelle nazioni confinanti per scegliere quale religione adottare per la Russia. Gli riferirono che i Musulmani del Volga erano tristi e puzzavano per le loro restrizioni sull’alcol e la carne di maiale; dai messi ebraici intuì che gli ebrei erano stati abbandonati da Dio, avendo perso Gerusalemme; nelle buie chiese tedesche non v’era bellezza, ma infine dell’Haghya Sofia di Costantinopoli gli dissero di “non sapere se era in cielo o in terra”, così Vladimir scelse il rito ortodosso. Ma la Chiesa non ha protetto la Russia dall’invasione dei Tartari: le occorreranno secoli prima di riprendersene, sotto Ivan III il Grande, poi con Ivan il Terribile. L’alleanza fra i due poteri qui è stata quasi sempre a relativo vantaggio dello zar, che se ne serve come pura consacrazione ‘interna’: addirittura Lenin restaurò il Patriarcato di Mosca, per secoli interrotto dal Sinodo delle Chiese ortodosse. Qui dunque decisivo è l’impegno alla continuità.

Giovanni II Comneno e sua moglie Piroska – Basilica Santa Sofia

Al contrario, nello stemma americano – la cui impronta massonica cela il religioso – vediamo l’incompiutezza (rottura allo scalino 13), l’implicita corsa al progresso, al dover in-cludere e con-concludere la Storia. E’ questo l’archetipo, profondamente biblico dell’America – la sua missione religiosa, letteralmente apocalittica. Letteralmente, perché il tempo escatologico non implica una scadenza cronologica: le cose ultime sono sempre, ma i coloni si sono posti come esecutori della sua attualizzazione. Se poi l’acume dei rabbi ha precisato che l’Impero è il katéchon, il potere che ‘frena, ritarda’ l’apocalisse e la Parusìa, lo stesso è incluso nella missione americana, arbitra del destino mondiale perché ha dentro l’approvazione (“annuit”) di Dio: With God on Our Side cantò Dylan già nel 1963, Dio sta dalla nostra parte. E’ per questo che essa non tollera un secondo, essendo il Potere unico. Il laico massonico dunque non inganni, esso da’ un monopolio politico a chi lo ha formulato per primo, di lì a poco il (problematico) motto Liberté Égalité Fraternité di Jean-Paul Marat e poi Camille Desmoulins inizierà a significare che solo l’Occidente è titolare dei diritti, formalmente estesi a tutti i popoli solo dopo la seconda Guerra mondiale.

E’ così dunque, vincerà l’uno o l’altro, sopravviverà solo uno dei due ? Non è proprio questa esclusività della logica occidentale il suo male, non sta qui l’impossibilità di risolverlo alla radice, il suo male e quindi poi tutti i mali che ne derivano? Non è proprio quell’aristotelico A = A l’errore originario ? Non è quel tertium non datur l’errore ? La Scienza (e la filosofia) più avveduta dello stesso occidente se n’è accorta da almeno un secolo. La logica dell’Occidente, cui siamo tanto affezionati, sbagliava già per il fatto che era basata su una società schiavista. E’ vero, ha prodotto capolavori di geometria come il Partenone, ma la sua logica formale finisce col girare in circolo, come si accorgerà venticinque secoli dopo Wittgenstein. A non sarà mai uguale ad A, ma a qualcosa di più o meno. Non solo perché vi è uno scarto tra la forma e la vita, ma perché noi stessi non possiamo misurare tutte le dimensioni della forma: così Heisenberg nel 1928 lancerà la sua bomba atomica sulle certezze dell’occidente col suo “Principio d’indeterminazione”: non possiamo sapere al tempo stesso posizione e velocità dell’elettrone. Da qui la cascata di conseguenze, a partire dalla tragica constatazione che l’osservatore modifica la cosa osservata, e dunque non esiste la famosa “neutralità” della scienza (con buona pace della recente mostruosa campagna mediatica vaccinale).

Nel caso della guerra, il pensiero dicotomico ha le conseguenze più nefaste – non solo perché la guerra è di per sé dolorosa e distruttiva (di solito soprattutto per una delle due o più parti), ma perché condiziona e plasma anche tutta la propaganda – che oggi è più che mai pervasiva, decisiva almeno per il pubblico che assiste e incita i belligeranti. La critica dell’avversario, anzi nemico, diventa assurda, cattiva fino all’inverosimile, eppure funziona. La critica-propaganda ha una sua logica di escalation, dovendo mirare al gradimento, e dunque moltiplica l’effetto negativo a livello politico. Oggi siamo qui, dopo due anni di condizionamento sociale orwelliano, che ha abbassato le difese immunitarie, non solo culturali ma biologiche della specie umana. I livelli dell’essere, dal più astratto e razionale al più capillare e sensibile, sono interdipendenti. Non c’è mai una sola causa (questo l’aveva capito anche Aristotele), perché non c’è una gerarchia pre-stabilita, ve ne sono fra le componenti di un flusso. Infiniti sviluppi sono avvenuti dopo la rivoluzione probabilistica, non possiamo qui ripercorrerli, dobbiamo però accennare a qualche altra via o ‘terapia’ per uscire dal pensiero dicotomico, non solo per gli scienziati, ma per la gente comune. Einstein disse che non è possibile risolvere un problema con gli stessi parametri nei quali è sorto – occorre un ‘salto’, non quantico (non gli piaceva troppo la fisica dei quanti), ma un salto nell’ordine di pensiero, ovvero un’uscita dal pensiero lineare, che è quello del tempo ordinato dell’orologio. Eppure, lui stesso diceva che per la vita di tutti i giorni, per la velocità umana bastano le coordinate cartesiane, danno misure affidabili. Dove non valgono più è a livello dello spazio cosmico, con il quale non possiamo commisurarci, già non possiamo pensare il tempo del sole come quello sulla Terra. Ecco, la relatività: possiamo pensare uno Spazio che s’incurva, accelerando il tempo. Einstein inventa lo spazio-tempo, con cui misurare grandezze macrocosmiche e microcosmiche, stellari e…(sub)atomiche. Il suo universo tiene, “Dio non gioca a dadi”. Ma noi siamo molto più in pericolo ora che prima della sua invenzione.

E dunque, vi sono altre possibilità ? Altre due sono la mistica e la poesia. Nemmeno la mistica è per tutti, “bisogna esserci portati”. Rimane la poesia, che almeno è scritta nella lingua comune. Ma per chi giustamente odia la poesia come si studia a scuola, dove (tranne eccezioni) la si distrugge, riducendola a “contenuti” lineari, cioè a prosa, vi sarebbe ancora la via classica, oggi apparentemente sempre più facile a tutti: il Viaggio in altre culture. Però, come si dice, “al netto” degli affollamenti, vuoi geografici che informatici, turistici o pubblicitari. Non è facile, dicono continuamente i cubani, eroi della tradizione politica, poetica, danzaria della loro isola. Che forse madonna Povertà ha aiutato a mantenere meglio che altrove. Non sto suggerendo un viaggio a Cuba – dove una preparazione medica sacrificale è riuscita a produrre un vaccino forse più efficace e meno dannoso dei vari Big americani – accenno solo a un’ultima suggestione, presente nel titolo del presente articolo. Non questo né quello – sia questo che quello, ed infiniti altri: neti neti (na iti), “non così non così” dice il sanscrito, enumerando ogni possibile aspetto di ciò che non è mai l’ultima realtà, il brahmān – solo ineffabile, non verbalizzabile, innominabile essere d’ogni cosa.

E così, non vi è pace, ma potrebbero esservi trattative per innumerevoli configurazioni di convivenza e co-esistenza, di collaborazione, infinite possibili convenzioni di scambio: accordi, turnazioni, complementarietà – rinunciando a una cosa soltanto: ad aver più Ragione da una parte e meno dall’altra, o assegnando definite quantità di colpa a questo o a quello. Che sono principi di malattia e di morte. La vita non funziona così, ma con l’accordo pieno, con la fiducia nell’intelligenza dell’altro, capace come me di accorgersi di un inganno o una sfumatura scorretta… Così come non possiamo con trucchi ingannare la natura, l’ecologia del pianeta non può più sostenere sfruttamenti intensivi né tantomeno guerre ! Diciamo pure che il capitalismo stesso è assai vecchio, e che la Tecnica, come anticipava Emanuele Severino, proprio in esso incontra il suo maggiore ostacolo: ma allora lo spazzerà via, perché la Tecnica è l’inarrestabile conflitto con l’umano.

Nicola Licciardello

1 Maggio 2022


[1] Come un secolo più tardi la Statua della Libertà, opera dei francesi Gustave Eiffel e Frédéric Auguste Bartholdi,  rappresentante la luce della Ragione, lo Stemma americano fu suggerito dal francese Pierre Eugene du Simitiere.

[2] https://it.wikipedia.org/wiki/Chiesa_ortodossa_russa.

GUERRA DI RELIGIONE ?

28 aprile 2022

Cercando di scrivere un articolo sulla guerra e il buio del futuro – vengo sopraffatto dal Presente. Più che immersi siamo schiacciati sull’attualità, non solo sui suoi paradigmi ma anche sui suoi moduli, sui suoi format, ne siamo parlati e formattati. “Chi controlla il presente controlla il passato, e chi controlla il passato controlla il futuro” (Orwell, 1984). Non c’è tempo per riflettere o esaminare (tanto meno criticare) un’idea sulla guerra, una teoria sulle sue cause e logiche conseguenze – è qualcosa che sembra non interessare più, di fatto siamo o preferiamo essere fusi nel-dal flusso informativo, non ricordiamo la news di un minuto fa, perché dopo pochi secondi un’altra la smentisce – non una ma dieci, cento, nei mille canali del turbocapitalismo mediatico (Fusaro) o cosmopolitismo fucsia: ciascuna è un inverificabile aggiornamento dell’altra… e il flusso vanifica la possibilità di distinguere tra verità e propaganda, tra informazione e talk show, tutto è fluido, dipende dall’orizzonte, tutto s’annulla nella “società liquida” (Bauman).

Così non sappiamo a che punto è questa guerra: le dichiarazioni dell’aggressore Putin, per esempio quelle dell’inizio (“denazificare l’Ucraina”) sono a priori considerate false, e sostituite con le sue (mai dichiarate) intenzioni di una blitzkrieg. L’attuale campagna del Mar Nero, non dichiarata all’inizio ma ben logica, non promette nulla di buono. Mentre ciò che vuole il Servant of the People Zelensky è dichiarato e reiterato: soldi contanti, armi sofisticate, truppe, volontari freschi, fino alla doverosa rotta della Russia, ergo Ukraina che entra nell’Unione europea con la Nato dentro, diventando la sua testa di ponte verso est, l’avanposto tecnologico degli Usa contro la Cina… E’ questo ciò che anche noi vogliamo ? Sembrava che la maggioranza della gente volesse l’opposto, la pace. Effettivamente, dell’ultima ora sono le titubanze o addirittura l’apparente retromarcia di alcuni governi europei (Germania, Italia ?) sulla cancellazione del gas russo. Ma intanto, se a qualcuno non viene in mente di farla finita con un first strike (primo colpo) nucleare che azzeri le difese del nemico, gli Europei faranno a gara per trovare soluzioni energetiche rinnovabili pur di eseguire le istruzioni atlantiche (blocco finanziario totale ed espulsione della Russia dalle Nazioni Unite), sicché la piccola vecchia Europa dovrà ricominciare a navigare in cerca di nuovi-vecchi commerci, l’Italia tornerà a essere “terra di navigatori, poeti e santi”…

D’altronde, molti analisti parlano di fine della globalizzazione governata dal re-dollaro, fine dell’economia ‘vuota’ (senza produzione di beni primari) e della sua finanza virtuale, un ritorno a produzioni persino alimentari e a un commercio fisico, il che porterebbe i paesi emergenti a liberarsi finalmente dal colonialismo strutturale dell’occidente. Se proprio si dovesse adottare una nuova ‘moneta universale di riserva’, forse potrebbe bastare una criptovaluta come il Bitcoin, o lo yuan cinese… Certo è che il rifiuto euroamericano di pagare la Russia in rubli ha generato una nuova creatività commerciale asiatica: il nazionalista premier indiano Narendra Modi ha – sì, fatto visita al presidente americano ma, in linea con lo storico “non-allineamento” dell’India, ha piuttosto rinforzato i suoi scambi commerciali con la Russia – anzi si è già creato o si sta creando un polo finanziario alternativo a Wall Street: fra Russia, India, Singapore, Cina… La politica è figlia dell’economia: quello che è stato e tuttora è precisamente il terrore dell’(ex)impero americano (Biden parla sì di un Nuovo Ordine Mondiale, ma sa va sans dire a leadership Usa), forse sta già avvenendo ? ciò che massimamente gli Usa non sono disposti ad accettare: una multipolarità mondiale – la cosa più normale del mondo, storicamente naturale. Persino nell’allucinante, crudelissima distopia 1984 Orwell ha mantenuto tre grandi aree politico-amministrative (in perpetuo conflitto fra di loro): Oceania, Estasia ed Eurasia.

Il richiamo ad Orwell e all’Eurasia mi riporta all’incredibile rimozione degli Euroamericani:  l’innaturale scissione della Russia dall’Europa. E’ vero che la Russia ha due anime, una occidentale, l’altra slava ed orientale, anzi siberiana. Ma come è possibile cancellare, seppellire l’intera cultura dell’anima russa europea (filosofia, letteratura, poesia, musica, arte, sport)? Se “dall’Atlantico fino al Volga”, la formula di De Gaulle a Strasburgo (23/11/1959) poteva risultare antipatica agli Usa, figuriamoci poi quella “Da Vancouver a Vladivostok”[1] di Mevdevev (Berlino 2008), forse  illuso che la straordinaria elezione di Obama avviasse un’innovativa apertura politica. Questo articolato, nuovo progetto di Sicurezza “paneuropea”, basato non sugli armamenti ma sul monitoraggio, fu respinto da Bush, eppure fino a otto mesi fa è stato ricordato da Putin a Berlino (“Die Zeit”, 22/06/ 2021), nel suo accorato appello in occasione dell’ottantesimo anniversario della ‘Guerra Patriottica’ di difesa e vittoria sul  nazismo. In quel discorso infine rimarcava: “il presidente in carica Yanukovych aveva già accettato tutte le richieste dell’opposizione. Perché gli Stati Uniti hanno organizzato il golpe? E perché i Paesi europei lo hanno inconsapevolmente sostenuto, provocando la spaccatura dell’Ucraina stessa e il distacco della Crimea dal Paese ?” Prosegue dichiarando che la Russia è uno dei “grandi stati europei”, ed elencando i campi in cui la cooperazione è di assoluto interesse comune: stabilità strategica, sanità, istruzione, digitalizzazione, energia, cultura, scienza, tecnologia, soluzioni ecologiche. L’affermazione finale “non possiamo permetterci di portarci dietro il peso di incomprensioni, risentimenti, conflitti ed errori del passato” è davvero l’invito morale al quale non aver risposto equivale all’apertura di una ostilità definitiva. E’ in quel punto, 2016, che si colloca il supposto “sabotaggio” informatico russo che ha portato alla sconfitta di Hillary Clinton e alla vittoria di Trump ?

Non sappiamo, forse mai potremo sapere, quanto apparente sia stato l’isolazionismo trumpiano e quanto la sofferta elezione di Biden sia frutto di un rinnovato riassembramento del “cosmopolitismo” imperiale antirusso: certo la politica estera dei “democratici” lo è apertamente, come in Italia quella del partito con lo stesso nome. Si tratta dunque di un’insanabile guerra di religione ?

Argomento assai scivoloso, da un lato per il suo peso nella storia europea, così drammaticamente fondata sul conflitto cattolici/protestanti, nonché papato/impero, al centro del suo territorio e del suo sviluppo – dall’altro per quello, non meno sanguinoso e mai sopito, fra Cristianità e Islam. Se queste correnti fondano la struttura della storia europea, non meno essenziale e insanabile è il dissidio all’interno della cristianità stessa, fra le sue due componenti maggiori e l’Ortodossia, cui stiamo al presente assistendo. Sembrano istanze tramontate, non lo sono affatto, anzi contengono l’archetipo del problema: il rapporto fra potere Sacro e profano, ovvero fra autorità religiosa e autorità politica – la seconda per tradizione bizantina (ma universale) sottomessa alla prima (Putin compunto alla cerimonia di Kirill). Sappiamo quanto il nostro Dante vi abbia ragionato, prima di uscirne con la teoria dell’armonia fra i due soli, il Papa e l’Imperatore, che non dovrebbero contendersi il primato, ma completarsi nella gestione della società: all’uno assicurare la pace, all’altro il benessere. E poiché la storia dell’Occidente, nell’ultimo secolo  guidato dagli Usa, non è che la progressiva de-sacralizzazione di ogni umanità e ogni cosa – in filosofia il nichilismo assoluto – non si può non riconoscere un fondamento logico alle tendenze ‘restauratrici’ che ispirerebbero lo stesso Putin. Lungi qui dall’attribuire una discendenza delle sue decisioni strategiche a diretti suggerimenti di colui che è definito “il consigliere di Putin”, il filosofo Aleksander Dugin (ben noto in Italia), occorre meditare sull’importanza della Tradizione, sincretista e non consumista (che include Marx) trasmessa da Dugin, troppo facilmente liquidato come “reazionario”.

Nicola Licciardello, 24 Aprile 2022


[1] Si veda: Serena Giusti, La sicurezza dall’Atlantico agli Urali secondo la Russia, ISPI (Istituto per gli Studi di Politica Internazionale) n.114, Gennaio 2009.

CANTO AFGHANO

1 settembre 2019

Canto Afghano è una poesia scritta nel 2001, subito dopo l’invasione Usa dell’Afghanistan, su appunti dei miei viaggi precedenti in Afghanistan (1972-1980).

E’ stata letta in performance collettiva a Padova, piazzetta Pedrocchi, nel novembre 2001, quindi in altre occasioni. Quindi inclusa nel mio libro ESTASI.COM-Diario India e Tahiti (Mimesis 2016). Allego qui l’ultima lettura, presso la libreria “Quanto Basta”, a Grosseto, l’8 giugno 2019, in occasione di una mostra di foto sull’Afghanistan.

ESOTERISMO fra AVANGUARDIA e GLOBALIZZAZIONE: POUND ELIOT YEATS

22 agosto 2019

ESOTERISMO fra AVANGUARDIA e GLOBALIZZAZIONE : POUND ELIOT YEATS

di Nicola Licciardello

 

SOMMARIO

I.Fragments of the world – II.Flusso di coscienza – III.Arte esoterica e sociale – IV.Poesia quantistica – V.Il Dante di Pound – VI.Pensare come un saggio – parlare come il popolo: la magia irlandese di W.B.Yeats – VII.Thomas Stearns Eliot: la musica del metodo mitico – VIII.L’impossibile alchimia de La Terra Desolata – IX.Quatuor pour la fin du temps: la Tradizione nei Quattro Quartetti – IX b.Tempo ed Eternità – IX c.Teologia Negativa – IX d.La Storia – X.Conclusione.

I. Fragments of the world

Artefici del modernismo in poesia, rivoluzionari eredi del simbolismo ‘800 di Blake e YEATS E ELIOTBaudelaire, legati fra loro da collaborazione e amicizia, i premi nobel Eliot, Yeats e Pound (candidato poi scartato perché fascista) sono una ‘trimurti’ esplosiva, come in pittura Kandinskij, Kokoschka e Picasso, in musica Strawinsky[1], Schönberg e Debussy, in filosofia Nietzsche, Bergson e Wittgenstein, in fisica Boltzmann, Heisenberg ed Einstein… Sono gli attori ben consapevoli della faglia linguistica globale apertasi nella storia dell’Occidente all’inizio del Novecento e intorno alla Prima Guerra mondiale – e di essi tuttora usiamo  le stimmate di pensiero. “Ezra Pound and T.S. Eliot fighting in the captain’s tower” (“litigano nella torre del capitano”) canta infatti Bob Dylan in Desolation Row 1965. Ezra Pound è l’attore americano che calamita in Europa il mutamento di prospettiva della poesia, la sua consapevolezza ‘imperiale’: la sua poesia mette fra parentesi il soggetto, avendo come oggetto, tema e fine la Storia mondiale. E’ una poesia della Storia, l’intera storia dell’umanità. Un progetto ambiziosissimo, virtualmente unitario come quello di Dante sette secoli prima: “Pound ci stupisce perché sembra aver pensato prima di noi quel che noi ora pensiamo su Dante: e invece quel che oggi noi pensiamo nasce spesso dalle sue idee” dichiarano i curatori del recente Dante di Pound[2]. Poesia della storia è anche poesia della poesia: se quell’ambiziosissimo progetto naufraga nell’impossibilità di raccogliere tutti i frammenti delle diverse civiltà che il suo stesso vortice va spezzando ­– “These fragments you have shelved (shored)”, “Questi frammenti hai dal naufragio… / (scaffalati)” traduce dal Canto VIII lo stesso Pound se il naufragio è il destino che il poeta stesso ‘rinforza’, allora egli non è ancora alla fine, non è l’Apocalisse. Quattro decenni più tardi, all’uscita dal manicomio, Pound infatti ritorna su quei versi (Canto CX), non vi è quindi ‘dissoluzione del soggetto’: anzi, come già su “The New Age” stigmatizzava l’usura del lavoro e dell’arte invocando l’uomo artigiano – come allora, l’io ha la missione essenziale di ricordarlo. Fra le cose più alte da lui scritte è l’ LXXXI (Canti pisani): “Ciò che sai davvero amare rimane/ il resto è scoria/ Ciò che sai amare è il tuo vero retaggio/ Ciò che sai amare non ti sarà strappato/…/ Deponi la tua vanità, non è l’uomo/ che ha fatto il coraggio, o l’ordine o la grazia/

Ed è per questa verità che il suo progetto comunque trionfa nell’impresa di inclusione e omologazione di tutti in lingua anglosassone, quale segno del destino: Oppenheimer e Fermi costruiranno l’atomica in inglese (a Los Alamos), Strawinsky e Thomas Mann parleranno inglese (a Los Angeles), lo stesso Yeats dovrà presentare in inglese le fiabe dei suoi “piccoli uomini” elfi irlandesi. Pound è straordinariamente abile: traduce in angloamericano gl’ideogrammi cinesi (non i mistici taoisti, ma la vedova di Ernest Fenollosa gli offre il teatro giapponese Nō) e quando si rende conto che è impossibile li include come miniature nell’assemblaggio dei Cantos (quasi a citare i Calligrammi di Apollinaire). E anche perché la sua metapoetica è intimamente globale, non può risaltarvi la mistica indiana, mentre il suo ‘allievo’ della Desolata Terra Eliot, nella chiusa del suo poema invocherà la pace con le parole sanscrite Datta. Dayadvham. Dāmyata/ Shantih shantih shantih, così estranee alla tragedia europea che sta cercando di esorcizzare.

II. Flusso di Coscienza

Ma quella tragedia non è facilmente esorcizzabile: si manifesta ad ogni livello e in ogni campo, perché è l’abisso stesso, il “buco nero” apertosi nella coscienza europea. Quel “trattare direttamente la cosa come uno scultore”, da Pound predicato nell’Imagismo, e quell’idea dell’immagine come apparizione esploderanno nell’archetipico Vortice della simultaneità, per rispondere al futurismo di Marinetti. Ma se la vera poesia è “l’unità vivente di tutte le poesie mai scritte”(com’egli propone), e se “tutto il tempo è eternamente presente, allora tutto il tempo è irredimibile” echeggera’ Thomas Stearns Eliot all’inizio del I Quartetto (Burnt Norton). Eppure “ci voltiamo addietro, noi artisti – scrive Pound, recensendo negli anni ‘10 una conferenza alla Quest Society di Londra (cui aderivano i premi nobel Tagore, Yeats e il cabalista Gershom Scholem) – verso i poteri dell’aria, gli spiriti dei nostri avi, eredi degli stregoni e dei vudu …attraverso di loro governeremo ancora !” Certo, se anche Shelley (come un tempo Novalis) aveva affermato che “i poeti sono gli ignoti governatori del mondo”, c’è qualcosa di piu’ profondo delle forme letterali e materiali, qualcosa di trasversale e invisibile, che influenza e informa la società umana: l’inconscio collettivo, diceva Jung – il quale proprio in quegli anni, separandosi dal pansessualismo freudiano, andava elaborando la sua visione degli archetipi. Ma nello stesso individuo, la memoria profonda è tutta intera e sempre presente, afferma Henri Bergson, altro Nobel di cui il giovane Pound frequenta le conferenze a Londra e le lezioni a Parigi, e cioè la coscienza è un flusso, che può ben risultare “creativo” (l’Evolution créatrice), come dimostrerà James Joyce, più tardi da Pound chiamato e sostenuto a Parigi.

III. Arte esoterica e sociale

Ed è proprio questa moderna coscienza del flusso, con l’accelerazione del XX secolo, a spingere le avanguardie artistico-letterarie verso un esoterismo[3] possibilmente in armonia col socialismo. Demetres Tryphonopoulos[4] fa risalire l’interesse del giovane Pound all’occulto all’incontro (1903-4) con la sua ‘Beatrice’, teosofa e musicista Katherine R. Heyman, seguace di Alexander Scriabin[5]. A Londra Pound aderirà al Social Credit del maggiore Clifford Hugh Douglas, ma conoscerà anche la Golden Dawn, in cui convergono l’esoterismo di Gurdjeff e il socialismo dei Fabians. E “The New Age”, guidata dall’iperattivo Samuel Liddell McGregor-Mathers, sposo della carismatica Moina Bergson (sorella del filosofo) e traduttore di Kabbalah Unveiled, non fu soltanto la rivista di Alfred Richard Orage (socialismo delle gilde), cui Pound collaborò per una generazione, ma 50 anni dopo segnerà l’inizio della “Nuova Età dell’Acquario” con la teosofa Alice Bailey: la sigla infatti riapparirà nel riflusso dei “favolosi anni ’60” (i Beatles).  Al “The New Age” di Orage collaborarono attivisti di una possibile “terza via” fra socialismo sovietico e liberalismo occidentale: Dimitrije Mitrinovic fonderà il movimento New Britain, che prevedeva le Gilde, il Credito sociale e assistenziale, e finanche una federazione europea nel “triplice Commonwealth” di Rudolf Steiner. Ecco dunque le origini del fascismo poundiano.

Non sorprende allora il rapporto quasi organico fra Futurismo ed esoterismo[6], con Filippo Tommaso Marinetti presidente del Circolo Occultistico di Milano (di cui riporta le sedute spiritiche sulla rivista “Senza Veli”), il “divisionista” Gaetano Previati accreditato al Salon de la Rose+Croix, Umberto Boccioni e Gino Severini seguaci della “Quarta Dimensione” di Ouspensky, Giacomo Balla con Fortunato Depero, autori de La ricostruzione futurista dell’universo (“Daremo scheletro e carne all’invisibile, all’impalpabile, all’imponderabile, all’impercettibile”) e nel cui atelier si forma Julius Evola… Carlo Carrà ed Enrico Prampolini, Ardengo Soffici, Giuseppe Prezzolini e Giovanni Papini (fondatore del periodico “L’Anima”): le famose riviste fiorentine “Leonardo”, Lacerba”, “La Voce” tutte impegnate a promuovere una rivoluzione interiore.

IV. Poesia quantistica

Sullo scorcio finale del secondo millennio il Modernismo verrà storicizzato: nel 1997 il comparatista Daniel Albright pubblica Quantum Poetics: Yeats, Pound, Eliot, and the Science of Modernism.[7] Come nella fisica coeva ai poeti si era affermata la nozione dei quanti di energia, o natura ‘granulosa’ della luce (i fotoni) piuttosto che ondulatoria, così si può parlare di una Poetica Quantica: “Esiste un Pre-Testo, un lungo fiume d’immagini, sculture vive oppure oggetti trascendentali, spettri che cercano di venire alla luce...” Esiste poi il Testo e il Post-Testo. Il significato di una poesia sta nei connettivi elementi più piccoli, ma “il simbolo, l’immagine, il vortice esistono prima che cominci il testo…prima che il poeta sia nato !” I tre poeti modernisti vengono quindi assegnati a una dominante ‘quantica’: Yeats sarebbe un poeta delle “onde”, Pound delle “particelle”, Eliot ancora delle “onde”.[8] Niels Bohr sperava che le metafore servissero a mitigare la progressiva intraducibilità fra gli stessi scienziati. Ed ecco una delle metafore più famose: “Può il batter d’ali di una farfalla in Brasile provocare un tornado in Texas?“. L’intrigante titolo di una conferenza di Edward Lorenz nel 1972 diventa la metafora dell’effetto farfalla[9], riusata in un numero incalcolabile di film, romanzi e letteratura scientifica. L’effetto farfalla è giustamente popolare per le implicazioni teoriche (e pratiche) sull’onnipresenza del caos e della imprevedibilità nel mondo reale. E per esempio, il Finnegan’s Wake di Joyce è un vivaio di imprevedibilità lessicali, da uno dei suoi giochi di parole, “Three quarks for Muster Mark” ha origine la parola e particella quark. Sulle straordinarie proprietà del vuoto, scoperte da Paul Dirac già nel 1928, ecco Jim Al-Khalili[10] uscirsene con l’elegante formula “il vuoto è vivo”: infatti, non è propriamente ‘vuoto’, perché vi pullulano microparticelle di segno opposto, che si annichilano continuamente scontrandosi, mentre altre ne sorgono ­– processo forse immaginato da Eraclito, certamente dal Buddha, che lo definisce shunyata, ‘vuotezza’.

V. Il Dante di Pound

E’ vero che certi Cantos di Pound possono a volte apparire patchwork polifonici alla John Cage, ma vi è un costante, interno filo rosso: la sicurezza, l’energia dell’uomo Ezra, la sua generosità e dirittura morale, l’intento di giustizia che innerva il suo continuo, dantesco giudicare i vivi e i morti.[11] Giustamente ritiene sue alcune riscoperte essenziali della lingua di Dante e dei Trovatori, perché unico è il suo rapporto con l’Italia e la sua lingua. E’ così conquistato dall’italiano in cui nel ‘45 scrive i Canti LXXII e LXXIII, i quali infatti non sono semplice racconto, ma riprendono la formula trobadorica della Pastorella: “…Era una contadinella/ Un po’ tozza ma bella/ ch’aveva a braccio due tedeschi/ E cantava,/ Cantava amore/…/ Sfidava la morte/ Conquistò la sorte/… Mentre la nota di umiltà che traspare negli ultimi Drafts & Fragments – il CXVI conclude: “Ammettere l’errore senza perdere il giusto:/ Carità ho avuto talvolta,/ Non so farla scorrere./ Un po’ di luce, come un barlume / ci riporti allo splendore” – è in fondo confessione e richiesta di perdono per non aver saputo scrivere quel paradiso terrestre che lo avrebbe elevato a Dante. E allora l’intervista da ottantatreenne concessa a Pasolini, pochi anni prima della scomparsa, è davvero un passaggio di testimone, a un figlio ‘degenere’ (comunista e omosessuale), ma pur poeta, figlio e intelligenza del tempo. Naturalmente il riconoscimento è reciproco: Pier Paolo, ricordandogli il “patto” poetico che da giovane Pound aveva rivolto a Whitman (omosessuale), cerca e ottiene il suo riconoscimento da parte di un ‘padre’ fascista (com’era stato il suo).[12] Entrambi accomunati da una lotta senza quartiere al capitalismo omologante, una lotta pagata l’uno col confino, l’altro con la morte. Ma Pound aveva affermato: “se un uomo non e’ disposto a morire per la sua idea, o questa o lui non vale niente.”

E certo “dall’Inferno emana una gran puzza di denaro”[13], perché al fondo vi sono i falsari e gli usurai: già dagli anni 1910 Pound filologo romanzo traccia una summa personale della Commedia in cui mostra la potenza esoterica nelle intenzioni e lo stile di Dante[14]. Basti pensare che egli è tuttora tra i pochi ai quali più dell’Inferno piace il Purgatorio, e ancor più la metafisica della luce e l’estasi del Paradiso. Peculiari sono le lunghe sequenze di versi originali, quasi più che analizzarli voglia mandarli a memoria: dell’Inferno XVII (Gerione, “simbolo della frode”) riporta interamente da 1 a 24, del Purgatorio I i primi 21 versi, del secondo (l’angelo nocchiero) da 10 a 45, del XXVIII (Matelda) i primi 75 versi !  E i commenti sono brevi e modesti, precisi: proprio sulla precisione di visione, dantesca e stilnovista, egli insiste, ribadendo che non abbiamo bisogno di chissà quali ermeneutiche (ringrazia Luigi Valli[15] per aver destato a letture più complesse, però “una mente sana respinge lo snobismo stravagante degli )” – bensì “abbiamo bisogno di un lessico” per tradurre dagli Stilnovisti. Noi che “abbiamo perso la facoltà di distinguere un investimento produttivo da uno distruttivo, nonché il concetto di decadenza intellettuale”, abbiamo bisogno di tornare alla precisione della Tradizione medioevale. E qui Pound mostra un’insospettabile competenza (latino e musica), elaborando sottili distinzioni filosofiche, ritmiche, musicali. Apprezza la traduzione inglese della Commedia di Lawrence Binyon proprio in quanto robusta e non sofisticata, mentre per capire Donna me prega di Guido Cavalcanti invoca gli pneumatici e l’intelletto possibile di Averroè contro la scolastica di Tommaso. L’eclettico e sperimentale Cavalcanti infatti, meglio di Dante gli fa scoprire la “virtù toscana”, fortemente innovatrice con la varietà delle rime sulla monotonia della canzone provenzale, e lo induce a uno straordinario volo metafisico. In opposizione alla scultura greca classica, a suo parere troppo diretta al plesso solare e a quelli inferiori, ma d’altra parte in opposizione alle “due malattie, l’ebraica e l’indù, i fanatismi e gli ascetismi monastici medioevali”, Pound rivaluta le risonanze poetiche (nonché pittoriche e persino architettoniche) rispondenti diciamo ai chakra superiori – cuore, mente, intelletto (o anima). Lo fa letteralmente ‘auscultando’ la complessità della canzone, poi del sonetto (che avrebbe luogo una volta persa la capacità di comporre la poesia per il canto). E a quelle due malattie contrappone “la sanità mediterranea, la sezione aurea, che produsse Saint Hilaire a Poitiers, San Leo e San Zeno a Verona, il Duomo di Modena, Bisanzio (sintonia con Yeats) e l’eredità bizantina in Sicilia”… ovvero la scelta di un’armonia interiore[16].

Tornando ancora un momento al Pound poeta, sempre sconcerta da un lato la familiarità del suo approccio con qualsiasi lingua, dall’altro la trasparenza – come nel tardo Canto CXIV: “Non iniziò e non termina nulla./ Anche al ragazzo del fruttivendolo sarebbe piaciuto scrivere qualcosa,/ ma disse: / La tenerezza, infinita, delle sue mani./ Mare, blu sotto gli scogli, oppure/ Yeats che mormora: <Sligo in cielo> quando calò la nebbia/ sul Tigullio. E la verità sta nella tenerezza.”[17] Così la sua è sempre l’evocazione di una comunità di poeti (“la letteratura non appartiene al singolo”), un cosmopolitismo di quelli morti e di quelli vivi, da lui provvidamente soccorsi. In Histrion scrive:

Nessuno ha osato scriverlo finora,/ Ma io so come avviene che le anime dei sommi/ Talvolta ci attraversano/ Ed ecco, siamo disciolti in loro, non siamo/ Se non riflessi delle anime loro”/…/ [18]

 

VI. Pensare come un saggio – parlare come il popolo – la magia irlandese di Yeats

William Butler Yeats, cui Pound per qualche anno fece da segretario nel Sussex giusto prima della Guerra, sarà suo ospite a Rapallo, e a lui dedichera’ la “prefazione” di A Vision, 1928 (Una Visione, Adelphi 1973), libro ‘tecnico’ che illustra la psicologia archetipica del suo calendario lunare, dettata da misteriosi “istruttori” alla moglie in trance e da lui trascritta. Ma questo non è che un ultimo episodio della sua personalità, fin dall’infanzia orientata a ciò che vien detto parapsicologia – certo ben gestita e fruttuosa. Se “non siamo che riflessi delle anime loro” come scriveva l’amico, Yeats crede che “le menti possano fluire l’una nell’altra, così creando e svelando una mente o energia unica, poiché le nostre memorie sono parti dell’unica memoria della natura[19]. Così, raccogliendo le fiabe popolari in gaelico di Leprechauns e Banshees, folletti, streghe e animali fatati del “piccolo popolo” o Sidhe, riesce non solo a guarire lo zio affetto da allucinazioni (lo spiega in Hodos Chameliontis), ma soprattutto a formare una mitopoiesi, una fantasia nazionale irlandese, la irishness o ‘irlandesità’ primigenia (“prima che la cera si solidifichi”), anteriore alla divisione fra “Cattolici, mistici ma privi di gusto, e Protestanti concentrati solo sullo star bene al mondo”. Il successo dell’operazione, che inneschera’ la Irish Literary Renaissance, con i drammi yeatsiani applauditi alle stagioni dell’Abbey Theatre al centro di Dublino, e in fondo all’affermazione della prima autonomia irlandese (1921[20]), fu dovuto non solo al genio dell’autore, ma anche alla sua fortuna. Indubbiamente, l’iniziazione diciottenne col bramino Mohini Chatterjee, rinforzata più tardi da Shri Purohit (in samadhi), gli fornirà le basi della disciplina intellettuale e morale, la limpidezza che tutti gli riconoscono. Ma è nel sodalizio con Lady Augusta Gregory (ricca vedova che ha viaggiato in India, Francia e Italia), che lo ospita ogni estate (e molti inverni) nella sua residenza di Coole Park – questa straordinaria collaborazione umana e artistica nel lancio della Renaissance teatrale, a permettergli una crescita inarrestabile, fino al Nobel del 1923. Certo Yeats già custodiva sacra la memoria dell’infanzia trascorsa presso i nonni materni nella campagna di Sligo (Sligeach), sulla costa nordoccidentale dell’isola: “Io, Augusta Gregory e John Synge pensavamo/ che ogni cosa da noi fatta, detta e cantata/ dovesse sorgere dal contatto con la terra, da quel/ contatto ogni cosa, come Anteo, cresce forte./ Noi tre soltanto nei tempi moderni abbiamo riportato/ di nuovo ogni cosa a fare i conti giù con la terra/ sogno del nobile e dello straccione” (The Municipal Gallery Revisited, 1937[21]). John Synge è lo sconosciuto poeta irlandese presentatoglisi in un piccolo albergo di Place de l’Odéon a Parigi – dove Yeats ha già conosciuto Mallarmé e Verlaine. Yeats recisamente gli sconsiglia la metropoli e caldamente lo invita a risiedere alle isole Aran, vivendo come uno degli abitanti. Synge seguirà il consiglio e quindi darà un contributo decisivo alla scrittura teatrale dell’Abbey: la sua prima opera, The Playboy of the Western World ha un grande successo nel 1907. Ma soltanto due anni dopo muore, mentre sta rivedendo le bozze di Deirdre of the Sorrows, e la sua scomparsa influenza la scrittura di Yeats, che diventerà più nervosa.

La terra del Kiltartan, dove sorge la tenuta di Coole Park, comunque gli ha già dettato una forte coscienza di poeta-guerriero, in Un aviere irlandese prevede la sua morte (settembre 1913): “…/ Io non odio la gente che combatto/ e non amo la gente che difendo;/ il mio paese è Kiltartan Cross,/ i miei compatrioti sono i pezzenti di Kiltartan;/ nessun evento può toglier loro qualcosa,/ o renderli più felici che in passato./ Non la legge, non il dovere mi costrinsero alla guerra,/ ma un impulso solitario di gioia[22]/…/ E se in Easter 1916 (sul Rising, la sommossa di Pasqua) celebra gli amici giustiziati (incluso il suo rivale in amore McBride) nella sanguinosa repressione dell’appena proclamata Repubblica d’Irlanda, perché comunque “oggi è sorta una terribile bellezza” (A terrible beauty is born), in altri versi della poesia precisa il ruolo dei poeti: “E’ il ruolo dei Cieli, il nostro ruolo/ Quello di mormorare nome per nome,/ Come una madre chiama suo figlio/ Quando il sonno è infine calato/ Su membra che hanno corso sfrenate.”[23]

E chissà se Maud Gonne, pasionaria della lotta di liberazione antinglese, col rifiutare le YEATS E GEORGIEsue reiterate proposte di matrimonio, non gli sia stata dopotutto propizia, contribuendo a mantenerlo in uno stato di eccitazione creativa e permettendogli di trovare infine (1917) la compagna nella preziosa medium Georgie, con cui lavorerà nella Torre di Galway. La tarda Under Ben Bulben evoca invece la contessa Markievicz, bella donna che Yeats nell’infanzia a Sligo ricorda cavalcava sui campi vicino Lissadell; indipendentista condannata a morte, attende in carcere, e Yeats la immagina dalle sbarre nutrire un gabbiano:

Quando tanto tempo fa la vidi cavalcare/ a caccia sotto il Ben Bulben/ bellezza di tutta la campagna/ nello slancio della sua gelosa selvaggia giovinezza/ pareva cresciuta così dolce e pura,/ come un uccello nato dal mare e nutrito di roccia.”[24]

Frattanto, nel lavoro teatrale, i fratelli Fay gli suggeriscono una modalità registica e attoriale di silenzio e quasi immobilità, che ben si accorda con la coeva ispirazione yeatsiana al Teatro Nō giapponese. Un simbolismo sempre più assoluto si manifesta nella raccolta The Winding Stair (La scala a chiocciola) del 1933, nella sezione A Woman Young and Old, ad esempio in Prima che il mondo venisse creato (Before the World was Made): “Se mi faccio le ciglia scure,/ E gli occhi più brillanti,/ E le labbra più scarlatte,/ O chiedo se tutto va bene/ Di specchio in specchio/ Non è per vanitosa esibizione:/ Io sto cercando il volto che avevo/ Prima che il mondo venisse creato/…/”[25] Seppure il contesto qui appaia quello attoriale, il tema consuona nel famoso koan zen “mostrami la faccia che avevi prima di nascere” – la cui risposta è possibile solo attingendo l’assoluto. Nella novella Rosa alchemica Yeats aveva scritto: “Ripetei a me stesso la nona chiave di Basilio Valentino, in cui egli paragona il fuoco del giorno del giudizio a quello di un alchimista, e ci annuncia che tutto deve dissolversi prima che la sostanza divina, l’oro materiale si desti […] e invocai la nascita di quella elaborata bellezza spirituale che sola può sollevare anime gravate da tanti sogni […].”[26] E poi chiarirà: “Se mi fosse concesso di vivere un mese nell’Antichità e la facoltà di trascorrerlo dove preferisco, credo che vorrei passarlo a Bisanzio, un po’ prima che Giustiniano aprisse S. Sofia e chiudesse l’Accademia Platonica (537 d.C.).”[27] La famosa poesia Sailing to Bysanthium[28] (in The Tower, 1927) sviluppa questa intuizione e volontà di metempsicosi infinita:

     III.

O sages standing in God’s holy fire
As in the gold mosaic of a wall,
Come from the holy fire, perne in a gyre,
And be the singing-masters of my soul.
Consume my heart away; sick with desire
And fastened to a dying animal
It knows not what it is; and gather me
Into the artifice of eternity.

 

IV.

Once out of nature I shall never take
My bodily form from any natural thing,
But such a form as Grecian goldsmiths make
Of hammered gold and gold enamelling
To keep a drowsy Emperor awake;
Or set upon a golden bough to sing
To lords and ladies of Byzantium
Of what is past, or passing, or to come.

III.

O saggi che state davanti al sacro fuoco di Dio
come nel mosaico d’oro delle mura,                   scendete dal sacro fuoco, scendete in spirale,
e siate i maestri cantori della mia anima.
Consumate il mio cuore; malato di desiderio
e legato a un animale moribondo,
non sa quello che è; e accoglietemi
nell’artificio dell’eternità.

IV.

Una volta fuori di natura non prenderò mai più
la mia forma corporea da elementi naturali,
ma una forma quale creano gli orafi greci
d’oro battuto e lamine d’oro
da tener desto un letargico Imperatore;
o posato su un ramo d’oro cantare                                ai signori e alle dame di Bisanzio
ciò che è passato, o passa, o verrà.

Sempre in Under Ben Bulben (“Sotto il Ben Bulben”, il monte ai cui piedi verrà sepolto) Yeats rivendica appartenere all’Irlanda primigenia, anziché all’India, il sentimento di una eterna reincarnazione: “Molte volte l’uomo vive e muore/ Fra le sue due eternità,/ Quella della razza e quella dell’anima/ E l’antica Irlanda sapeva tutto ciò.”[29] La lettura di Stock (vedi nota precedente) sottolinea l’accento vitale di Yeats, che è riuscito a far buon uso delle tecniche meditative indiane, ma al fine di stabilire il trait d’union con la sapienza – più che neoplatonica, soprattutto mito-poietica celtico-europea, così è significativo il suo motto “Il mio esempio è Omero, e il suo cuore non-cristiano”. Un poeta non è un santo, nemmeno un moralista o un filosofo, ma un uomo irripetibile, impegnato a scambiare coi suoi simili i frutti più nitidi della sua energia creativa.

Dunque, seppure la raffinatezza preraffaellita dei suoi primi poems divenga più asciutta  e incisiva nella poesia successiva, la parola di Yeats mantiene una sua grazia e cantabilità proverbiale, nel senso anche letterale che è davvero all’origine di tanta musica new age (e di letteratura, si pensi soltanto alla saga del Signore degli Anelli di Tolkien), a partire dagli anni ‘70 del ‘900: da Donovan, che nel ‘71 musica The Song of the Wandering Aengus, a Branduardi (Branduardi canta Yeats), agli Incredible String Band, ai Waterboys (An Appointement with Mr.Yeats), al rapper romano Briga, etc.

 

VII. Thomas Stearns Eliot ­– la musica del metodo mitico

Il volto più straight della ‘trimurti’ modernista, clerk al Colonial & Foreign Department dei Lloyds di Londra (fino al 1925), “classico in letteratura, monarchico in politica e anglocattolico in religione”[30], Eliot è il più incerto e tormentato dei tre, e il suo sofferto disincanto ha davvero bisogno di una Parola sacra, Upaniśad o Vangelo che sia. E’ così singolare che torni in America a studiare il sanscrito prima di stabilirsi definitivamente in Inghilterra, come è raro che da poeta accetti un’amputazione così radicale come quella inferta dal “miglior fabbro” Pound al suo poema centrale The Waste Land. Ma è proprio il successo letterario di questa “cesarea operazione” che invita all’indagine.

La poesia di Pound ed Eliot è inscritta nelle avanguardie letterarie e artistiche d’inizio ‘900[31], ma spontaneamente sembra nascere già da un loro umanistico rifiuto-orrore dell’invasione macro-meccanica, l’inquinamento di terre arie e acque, la completa desacralizzazione di ogni rapporto[32] e, a Guerra mondiale terminata, della sua barbarie assieme alla minaccia della Rivoluzione russa.  Eliot è caratterialmente a un passo dal nihilismo, e se “inconsistenza e contrapposizione universale” sono le caratteristiche dell’epoca, è paradossale definire la sua risposta, in quanto essa stessa partecipa al processo di irrealizzazione del mondo, cioè alla sua incoerenza e al suo svuotamento. Nel 1911 egli teorizza il paradosso: se “grande poeta è colui che esprime con la massima intensità emotiva il pensiero del suo tempo, qualunque esso sia[33], ciò può avvenire però con l’ “impersonale” non-emotività dello scrittore, nella consapevolezza di svolgere un servizio che ha dietro di sé l’intera tradizione. Perciò si dota del “correlativo oggettivo”[34] come strumento retorico: “Il solo modo di esprimere emozioni in arte è scoprire un , una serie di oggetti, una situazione, una catena di eventi che saranno la formula rappresentativa di una particolare emozione”. In tal modo è come se fossero le cose a parlarsi, nella sua poesia non c’è quasi mai io in prima persona, gli uomini infatti presto diverranno “vuoti” (Hollow Men, 1925), quasi pupazzi impagliati vomitanti formule senza intenzione.

Fin d’ora si noterà che è proprio dal suo linguaggio elementare, scarnificato e pulito che nasce The music of Poetry (1942), dove “nessun verso è libero per chi voglia fare un buon lavoro.” Montale percepisce questa musica, “in cui a volte affiora il tradizionale pentametro giambico. Una musica bassa, apparentemente prosastica, parlata e non cantata.”[35] Ed è questo a sorprendere Hugo Friedrich[36]: il famoso “tono polifonico” de La Terra Desolata risulterebbe non da una fusione armonica ma da un montaggio (arbitrario ?) di vari registri (lirico, parlato, parodico, sapienziale etc), che tuttavia occorre chiedersi come mai ‘funziona’ – tanto più che  Eliot riprende anche, e intensifica l’atmosfera buia, il colore depresso, lo spleen di Baudelaire e il sarcasmo di Jules Laforgue.

E dunque: da una parte è il caos del mondo a non poter più esser ‘cantato’ – già in The Love Song of J. Alfred Prufrock (1910), pubblicata su “Poetry” nel 1915 (e in altre poesie del periodo), Eliot ‘dimentica’ nessi logici, lasciando sfaldarsi personaggio e paesaggio – d’altra parte il poeta cerca e trova una scrittura adeguatamente s-connessa. Interessante che lo faccia a posteriori, l’anno dopo l’uscita della sua Terra Desolata, nella recensione all’Ulisse di Joyce (1923): “Nel manipolare un continuo parallelismo tra il mondo contemporaneo e il mondo antico, Joyce sta seguendo un metodo che altri dovranno seguire dopo di lui […] è semplicemente un modo di controllare, ordinare, dar forma e significato all’immenso panorama di futilità e anarchia che è la storia contemporanea. E’ un metodo già adombrato da Yeats e della cui necessità credo Yeats sia stato il primo contemporaneo a rendersi conto. E’, lo credo seriamente, un passo verso la possibile resa del mondo moderno in termini artistici […] Invece del metodo narrativo, noi possiamo ora usare il metodo mitico.”[37]

Prescindiamo per ora (fino al 1927 Eliot non si professa cristiano) dalla lettura religiosa di Mario Luzi, che riprenderemo nelle conclusioni. En passant però si noti come quella “resa del mondo moderno in termini artistici” possa rinviare in modo sorprendente alla tecnica giapponese del kire, cio’ che nelle varie arti spezza il reale convenzionale, scomponendolo in una ‘irreale’, nuova dis-posizione o dis-continuità.[38]

Dall’impossibilità della narrazione intanto, impossibilità di ogni ingenuo realismo – essendo gli eventi e l’uomo stesso ormai imprevedibili – riuscire in una resa musicale del caos, un modo più coinvolgente e affine al discorso letterario che non la sincronicità visiva del cubismo: questo appare l’intento più plausibile. Eliot era rimasto affascinato dalle barbariche dissonanze del Sacre du Printemps di Strawinskij (Parigi 1913), e in seguito ne legittimerà la funzione ne La Terra Desolata, come principio di ribaltamenti tematici e intertestuali. L’approccio implicitamente “ecosofico” di Eliot dovrebbe essere verificato con l’aggiornatissimo e polimetodologico Oikosofia di Daniela Boccassini.[39] Mentre Alessandro Serpieri[40] segue l’intuizione di Julia Kristeva, che già in Shmeiwtikh (Feltrinelli 1978) ribadiva l’inevitabilità del polistilismo in poesia: “è una legge fondamentale, i testi poetici moderni si costruiscono assorbendo e distruggendo nel medesimo tempo altri testi dello spazio intertestuale: sono per così dire alter-giunzioni discorsive.” Il metodo mitico insomma costruisce il suo testo dal confronto con altri testi, passando da un paradigma all’altro (letterario, mitico, antropologico),  e da un codice all’altro.[41]In una società alienata, lo scrittore partecipa mediante una scrittura paragrammatica a partire dalla sua stessa alienazione[42] (ivi). Motivazioni, circostanze, soluzioni stilistiche e critiche, fin dagli inizi di Eliot ad oggi, si rivelano dunque assolutamente attuali.

 

VIII. L’impossibile alchimia de La Terra Desolata

La musica di cui parlano Montale e Friedrich, data dal registro medio della lingua (tranne nei nomi propri e negli inserti) occulta l’estrema complessità di rimandi letterari, religiosi e/o esoterici che l’autore dichiara nella nota introduttiva – in primis il riferimento a Jessie Weston From Ritual to Romance (1920), e all’antropologia dei riti di vegetazione e risurrezione che James Frazer tratta in The Golden Bough (1915).[43]

Il tema antropologico letterario tacitamente implicato dal poemetto è che occorre curare la terra  guasta. Il che è archetipicamente possibile solo se guarisce il suo re malato, il re del Graal o Re Pescatore.[44]

Fra le (im)possibili letture del fortunato poemetto di Eliot potrebbe esservi quella alchemica. La Nigredo iniziale sembra quasi evocarla con la “Sepoltura dei morti” rovesciata ad aprile. Potrebbe concordare anche la Putredo, il marcire dei rapporti umani del II quadro Una partita a scacchi. Persino l’intero poemetto potrebbe venir letto come una nékuia, un descensus ad inferos (di un ipotetico soggetto oggettivato) alla ricerca di un contatto salvifico. Ma diventa presto molto arduo sia rintracciare le fasi alchemiche di anabasi, risalita verso una rinascita, che l’esito di questo viaggio. Se uno sviluppo vi è, è in negativo: il re non guarisce, anzi la sua malattia o impotenza si diffonde per la terra fra tutti i suoi personaggi, antichi e contemporanei, nobili e proletari.

Grappoli di alta storia-poesia intrecciano i primi versi: Chaucer, Webster, Louis Philippe, James Thomson, il lago Starnbergersee dove annegò il folle re prussiano Ludwig II, mecenate di Wagner, il racconto di Marie Vetsera – Eliot quasi rivela la tragedia di Mayerling.[45] Il sincopato excursus sull’aristocrazia apre al profeta Ezechiele, il quale maledice la terra senz’acqua e minaccia l’uomo ignaro, lo invita (fra parentesi) a tornare sotto la Chiesa mostrandogli “la paura in un pugno di polvere” (v. 30, cfr. John Donne). Di seguito, la canzonetta che il marinaio canta alla sua bella  (Tristano e Isotta) è subito contradetta da una sorta di svenimento nel Giardino dei Giacinti, ove invano la ragazza guarda al ‘cuore della luce’ (contro il conradiano ‘cuore di tenebre’), perché Oed’ und leer das Meer,Desolato e vuoto il mare” (ancora dal Tristano). Repentino cambio di scena con Madame Sosostris, “famosa chiaroveggente ha un brutto raffreddore, ciononostante è nota come la più saggia donna d’Europa con un perfido mazzo di carte” – Tarocchi da cui estrae il Marinaio Fenicio affogato, i cui occhi son diventati perle, le ossa corallo (la rigenerazione miracolosa è qui allusa quale tema de La Tempesta shakespeariana), quindi estrae la Belladonna, poi il Mercante di Smirne orbo di un occhio (col suo carico misterico)… non trova l’Impiccato (che Eliot associa al Dio impiccato in Frazer) e invece vede “folle di gente che camminano in cerchio”, come in certi passaggi di Federico Fellini. La ripresa dantesca dell’ultima stanza eleva l’effetto corale: “Città irreale, sotto la nebbia bruna di un’alba d’inverno/ una folla fluiva sul London Bridge, tanti/ io non avrei creduto che morte ne avesse disfatti/ Sospiri, brevi e rari, ne esalavano/ e ognuno fissava gli occhi davanti i suoi piedi.[46] Il reduce-berretto Stetson innesca un’apostrofe sui morti viventi che il Cane potrebbe dissotterrare e risvegliare, richiamando la complicità del Lecteur di Baudelaire nell’ultimo verso (che nell’originale definisce la Noia “mostro delicato”, conclusivo della rassegna dei mali moderni).

Il II quadro, Una partita a scacchi è più semplice, due sole scene: la prima su Cleopatra (e ancora lo stupro di Filomela, Ovidio), la seconda il basso dialogo di due donne in un pub. Qualche sprazzo poetico accende la prima, per esempio i capelli che “ardevano in parole” (glowed into words), o il pensiero che “siamo nel vicolo dei topi/ dove i morti hanno perso le loro ossa” (I think we are in rats’ alley/ Where the dead men lost their bones), e conseguentemente non c’è nulla nemmeno nella testa del suo interlocutore. Nella seconda, l’intercalare del barista SBRIGARSI PER FAVORE, SI CHIUDE termina col “Buonanotte dolci signore” con il quale Amleto esce di scena (IV, 5, 71-72).

Centro geometrico e simbolico della Terra Desolata, il III quadro (il più ampio, vv. 173–311 dei complessivi 433) Il Sermone del Fuoco è affidato a Tiresia, “la figura più importante del poema, che unisce tutti gli altri” (Eliot), in quanto in lui parla la bisessualità (archetipo), anche se ormai ridotta a dolorosa consapevolezza. Ma il vero protagonista sembra il fiume Tamigi: “Dolce Tamigi, scorri lieve, finché non finisca il mio canto” (Spenser, Prothalamion, quando il fiume era ancora abitato da Ninfe). Però ormai “la tenda del fiume è rotta” (la vegetazione marcisce), e le ninfe (prostitute estive) sono partite. Vi affiora il Salmo 137: “sui fiumi di Babele piangevamo al ricordo di Sion”, e in prima persona singolare Eliot stesso, che a Losanna, “presso le acque del Lemano mi sedetti e piansi” (By the waters of Leman I sat down and wept). Gli scrocchiano le ossa e sente il ghigno del tempo da un orecchio all’altro (chuckle spread from ear to ear), come Bloom nell’Ulisse di Joyce, e come Ferdinando, che ne La Tempesta piange il naufragio del padre re. La vista di un topo osceno evoca lo scimmiesco Sweeney con Mrs. Porter, che sostituiscono Atteone e Diana del dramma di John Lily. La signora Porter e figlia si lavano ancora più oscenamente (per contrasto è citato il verso sulle voci bianche dalla poeia Parsifal di Verlaine), richiamando suoni copulativi (il tema di Tereu che stupra Filomela). Di nuovo, nella “città irreale” e nell’ “ora viola” Tiresia riceve un invito dal Mercante di Smirne Eugenide, mentre vede rincasare il marinaio e la dattilografa, e prevede (lui che era stato sotto le mura di Tebe) lo squallido seguito sessual-meccanico. Appena uscito il marinaio, la dattilografa metterà su un ballabile, mentre Tiresia ricorda la musica soave de La Tempesta, e la proietta negli angoli tuttora rilassati di Londra, fino al veleggiare caro all’autore, fino all’estuario. L’ultima copula evocata (“A Richmond sollevai le ginocchia/ supina sul fondo di una stretta canoa”) non può essere quella nel battello dalla chiglia dorata, che trasporta la coppia Regina Elisabetta ­– Conte di Leicester. Ma è comunque il momento della resa: “Posso solo connettere/ Nulla con nulla” (I can connect/ Nothing with nothing).[47] Le telegrafiche citazioni dalle Confessioni di S. Agostino e dal Sermone del Fuoco del Buddha sottolineano infine un rogo che non purifica tale nihilismo.

Si sa che La morte per acqua, IV episodio de la Terra Desolata, venne ridotto da Pound agli attuali 10 versi, egli però rifiutò di cassarlo integralmente, vuoi per lo stile epigrammatico vuoi perché cita la poesia eliotiana Dans le Restaurant inclusa nei Poems 1920, con quel Flebas il Marinaio affogato “assolutamente necessario.” Come sempre, sacrificato “in bisbigli”, topos eliotiano già in Gerontion e Whispers of Immortality, e ora al 377-8: “Una donna tirò tesi i suoi lunghi capelli neri/ e arpeggiò musica di bisbigli su quelle corde” (A woman drew her long black hair out tight/ And fiddled whisper music on those strings).

La ‘vicenda’ desolante avrà un esito in Ciò che disse il tuono, V episodio ? Forse sì, ma un esito ‘improprio’. Già il titolo fa riferimento a un versetto della Bṛhadāraṇyaka Upanișad[48] (forse la più antica), in cui il creatore (autosacrificante) Prajāpati verifica che i suoi ‘figli’ Dei, Uomini e Asura abbiano compreso gl’insegnamenti; e così è: gli Dei hanno compreso il loro DA, cioè “dominatevi” (dāmyata), gli Uomini il loro DA, cioè “date” (datta), gli Asura il loro DA, cioè “siate compassionevoli” (dayadhvam). La Voce del Tuono DA DA DA ha insomma dettato i precetti che bisogna insegnare e anzitutto eseguire (tutti): l’autodominio (dama), l’offerta (dāna), la compassione (dayā) – ossia gli aspetti del sacrificio, ciò che sostiene ṛta, l’ordine cosmico[49]. Ma qui l’intero episodio ha invece contenuti e svolgimento eminentemente cristiani e biblici. Eliot stesso annota che “nella prima parte sono impiegati tre temi: il viaggio a Emmaus, l’avvicinamento alla Cappella Perigliosa (del Graal) e la presente decadenza dell’Europa orientale.”[50]

Si apre una lunga agonia da sete (roccia senz’acqua), che genera anche un’allucinazione: un altro cammina al nostro fianco[51], in una condizione letteralmente apocalittica: orde incappucciate su montagne che si spaccano, torri crollanti, pipistrelli con facce di bambini, voci cantanti dal fondo di pozzi esauriti (forse Geremia 2,13)… la Cappella è vuota, persino il Gange è basso, né lo spruzzo di pioggia annunciata da un gallo varrà a mutare lo scenario… fra Bosch e uno splatter postmoderno. Ma non solo: la coscienza del Datta “che cosa abbiamo dato” riporta alla memoria irrevocabile la violenza sessuale già nell’infanzia; quella della compassione Dayadhvam vede che “ognuno gira la chiave della sua prigione” (e Coriolano finirà ucciso); la coscienza dell’autodominio (Damyata) infine lascia sì, apparire una vela, che risponde alla mano esperta (del nocchiero Eliot) sul mare calmo, eppure “il cuore avrebbe risposto”… nel condizionale qualcosa ancora s’interpone: il dubbio (Isaia 38,1 al re Ezechia) “riuscirò almeno a mettere ordine alle mie terre ?” Ed ecco i 6 versi finali accavallare un’intertestualità infernale, un vero Feu d’artifice[52]: <London Bridge is falling down falling down falling down)/ Poi s’ascose nel foco che gli affina (i lussuriosi di Purg. XXVI)/ Quando fiam uti chelidon (“quando sarò come la rondine”, ancora Filomela nel Pervigilium Veneris) – O Rondine Rondine (- O Swallow Swallow)/ Le Prince d’Aquitaine à la tour abolie (Gerard de Nerval, El Desdichado, ma anche l’arcano XVI La Torre dei Tarocchi, “Maison Dieu” spaccata dal fulmine)/ Con questi frammenti ho puntellato le mie rovine (These fragments I have shored against my ruins)/ Be’, allora vi sistemo io. Hieronymo è pazzo di nuovo (Why then Ile fit you. Hieronymo’s mad againe)>>. Quest’ultimo, annota Eliot, è Spanish Tragedy Kyd, dramma elisabettiano: impazzito per la morte del figlio, Hieronymo così risponde a Balthasar e Lorenzo, che gli hanno chiesto aiuto per mettere in scena un dramma: “Why then Ile fit you” significa a un tempo “vi assegnerò io le parti” e “vi sistemerò”, perché nella recita farà in modo che vengano uccisi gli assassini di suo figlio.

A questo punto, la chiusa Datta. Dayadhvam. Damyata./ Shantih shantih shantih[53] è sì, in chiave religiosa un’invocazione-scongiuro (come un “Oh Cielo ! Oh mio Dio !”); ma nell’implicito approccio transculturale suona quasi uno sberleffo: la storia europea (che segue l’archetipo giudaico) sembra motteggi la saggezza indiana, sancendone l’inapplicabilità all’apocalisse in atto ­– come dire: ‘qui altro che pace!’; però sul piano letterario, anzi poetico, è certo un coup de théâtre, un ricorso tematico che sembra anticipare una “pace” New Age figlia dei Fiori.

Ricordando il giudizio di Montale: “T. S. Eliot ha un tono da grande poeta ma in lui musica e pensiero stentano spesso a mettersi d’accordo. La Terra desolata mi pare unita solo esteriormente, cucita con lo spago[54] – si potrebbe osare un ulteriore grado di incertezza ermeneutica, o una sua variante: dopotutto, se da parte dell’Autore è strutturale il “multiculturalismo” del testo (il “metodo mitico”), non potrebbe esserlo anche una pluri-ermeneutica da parte del Lettore? Così, poniamo che Eliot, senza curarsi troppo di tesi antropologiche, abbia lanciato in aria le sue carte, le sue serie letterarie e poetico-mitiche di varie epoche e nazionalità, decidendo soltanto i titoli dei cinque episodi, e ordinando (a una sorta di computer “intelligenza artificiale”) la costruzione di qualche scenetta – sessuale, di naufragio e di desolazione apocalittica… gli elementi andrebbero a posto da soli, automaticamente, secondo il principio vitale, evolutivo e performativo del massimo effetto col minimo dispendio energetico… in un’autorganizzazione fra ordine e caos, una ‘disarmonia prestabilita’ o dis-equilibrio di accostamenti – quello che tuttora suscita il gradimento, anzi costituisce il fascino, la music of poetry del poemetto.

La rappresentazione del caos contemporaneo, già nelle prime avanguardie, piace perché è un esorcismo artistico. Non solo ci si vede rappresentati e giustificati, ma si vede e si sente tale rappresentazione come bella, positiva – proprio mentre è costituita da fragments, da relitti. Si tratta quindi di una vera operazione di riciclo ideologico, dai risvolti finanche socioterapeutici.

 

IX. Quatuor pour la fin du temps[55] – la Tradizione nei Quattro Quartetti

I Four Quartets (1943) sono raffinatissimi excursus mistico-musicali[56], ha scritto Alfonso Berardinelli[57]:  “Aveva analizzato il caos e l’assurdo, ma aspirava alla fede e all’ordine […] Lo stile di Eliot è insieme morbido (morboso) e laconico (severo). Questi poemetti sono leggibili come saggi in versi o come monologhi drammatici”.

I Quartetti di fatto costituiscono il passaggio dal modernismo al post-modernismo. E certo il ritorno a una tessitura più coerente e armonica, pur non implicando l’accostamento al Paradiso dantesco da qualcuno avanzato (la Terra Desolata come Inferno), consente un’identificazione di corrispondenze iniziatiche: Burnt Norton = Primavera, Aria; East Coker = Estate, Terra; The Dry Salvages = Autunno, Acqua; Little Gidding = Inverno, Fuoco. Dove però si rovesciano le fasi del tradizionale processo alchemico, qui concluso col fuoco della storia. Seguendo la traccia religiosa, [58] si può tentare l’evidenza trasversale (ai Quattro Quartetti) di alcuni ragionamenti riconoscibili, ad esempio nei temi del Tempo/Eternità, del Sacrificio, dell’Individuo/Comunità.

IX a. Tempo ed Eternità

Centrale è l’asse problematico eliotiano del tempo. Già il I Quartetto Burnt Norton[59] (1935) convoglia al presente i due classici corni del passato (l’im-possibile e il reale): “Ciò che avrebbe potuto essere e ciò che è stato/ mirano a un solo fine/ che è sempre presente”. [60] Quindi si focalizza l’attimo, di cui è simbolo la danza, sospesa e ‘fotografata’ come in estasi: “Al punto fermo del mondo rotante. Non corporeo, né incorporeo;/ Non da né verso; al punto fermo, là è danza/ Il luogo dove passato e futuro sono uniti.”[61] E certo, l’Autore ricorda l’insegnamento agostiniano e buddhista, non c’è passato né futuro, “esser consapevoli è non essere nel tempo” – ma ecco, torna l’emozione: “Solo nel tempo è il momento delle rose nel giardino,/ della pergola dove batte la pioggia,/ della chiesa ariosa senza fumo/ ricordate fra passato e futuro/ solo attraverso il tempo si conquista il tempo.” [62]  Una dichiarazione che sembra definitiva, rafforzata dalla “coesistenza” (v.145) dei tempi invocata nel finale – dove però l’attimo, allargatosi in due infiniti come nella uroborica “porta carraia” di Nietzsche[63], torna a essere speculare, e quindi circolare: la fine precede il principio, prima del principio e dopo la fine. E tutto è sempre ora[64]. In effetti il tempo si rovescia come un calzino, in un implicito processo di metemsomatosi senza fine: l’epitaffio sulla tomba del poeta a East Coker[65] (II Quartetto, 1940), recita:

Nel mio inizio è la mia fine. Per gentilezza, pregate per l’anima di Thomas Stearns Eliot, poeta. Nella mia fine è il mio inizio[66].

E proprio questa semplicissima idea (fatalismo quasi stoico), è per Eliot la chiave che torna a riaprire la ferita del dolore e della morte, se anche nel finale del poema (Little Gidding) – dopo tutte le perorazioni (si vedranno più avanti), una straordinaria eulogia della Parola si conclude allo stesso modo: “Ogni passaggio e ogni frase sono una fine e un inizio,/ Ogni poesia è un epitaffio.[67]

Il più classico degli isomorfismi, poesia-forme di vita e di pensiero, segna il passo del poema – come in un Ovidio così in Eliot: qui il mare è “tutt’intorno a noi”, come se l’umanità fosse costantemente battuta da tsunami, perché il suo moto è simbolo della vicenda biologica universale, che lascia sempre a riva i suoi relitti ed è costretta a riprendere il largo. Un empito immenso respira in questa pagina di Dry Salvages[68]:

Quando avrà fine, il lamento senza suono/ Il silenzioso avvizzire dei fiori autunnali/ Che perdono i petali e restano immobili;/ Quando avrà fine, la deriva dei relitti,/ La preghiera dell’osso sulla spiaggia, la non pregabile/ Preghiera della calamitosa annunciazione?/ […] [69]

Giustamente Massimo Bacigalupo traduce qui il ricorrente where con il quando che la voce di Eliot continua a implorare – inascoltata dal Tempo. E niente mai avrà fine (nell’ecosofia eliotiana):

[…] non possiamo pensare a un tempo senza oceano, o a un oceano non cosparso di rifiuti, o a un futuro non esposto, come il passato, a non avere alcuna destinazione. Non avrà fine, ma aggiunta, l’orgoglio.”

E’ il più radicale, religioso nihilismo che la modernità abbia mai immaginato. Religioso nella ricorrente presenza di una misteriosa “incarnazione”, o “punto d’intersezione dell’atemporale con il tempo” che poter percepire è “un’occupazione per santi.”

La domanda a Oriente però ritorna, e sembra confermare una tragica ciclicità:

Mi chiedo a volte se Krishna volesse dire questo/[…] la via che sale è la via che scende, la via in avanti è la via indietro./ E’ difficile da ammettere senza esitazione, ma nondimeno sicuro,/ Che il tempo non guarisce: il paziente non c’è più.” [70]

Così, l’evocazione della Bhagavadgītā (dove parla Krishna) incrociata con Eraclito, permette all’Autore di decostruire l’apparenza del Viaggio, e ai viaggiatori in treno o in nave Eliot ricorda un preciso momento del tempo, solitamente poco percepibile, quello del trapasso:

Nel momento non di azione né di inazione/ Potete considerare questo:   quella è l’unica azione/ (e il momento della morte è ogni attimo)/ Che darà frutti nella vita di altri;/ E non pensate al frutto dell’azione./ Ma andate avanti. […] Non buon viaggio,/ Ma buon proseguimento, viaggiatori.” [71]

Viene così esposto uno fra gli insegnamenti più difficili (esoterici e disattesi) di meditazione non solo buddhista o vedantica ma universale – senza una introduzione o una concreta probabilità di messa in pratica, data la ben scarsa opinione che Eliot ha dell’umanità (“Via via, disse l’uccello: il genere umano/ Non può reggere troppa realtà.”[72]), in un contesto poi di sarcasmo (il paziente non c’è più”).  E’ piuttosto un esempio sincretico del famoso “metodo mitico”.

Un ultimo esempio si trova in un luogo importante del poemetto, nel quarto Quartetto Little Gidding, dopo il commiato dal misterioso Maestro incontrato per le strade di Londra sotto i bombardamenti. Eliot espone in modo sintetico e ‘orientale’ l’ardua dottrina sapienziale del distacco, via alternativa ad attaccamento e indifferenza (una specie di morte questa, perché unflowering, “non sbocciando” fra l’ortica viva e quella morta). Il distacco invece sarebbe un di più dell’amore, una sua espansione oltre il desiderio, e così una liberazione sia dal futuro che dal passato[73]. Subito Eliot qui rielabora un possibile conflitto con l’amor di patria, il quale:

Inizia come attaccamento al proprio campo d’azione,/ ma giunge a considerare quell’azione, anche se non indifferente, di poca importanza.[74] Im-poetico eliotiano e understatement anglosassone, la cui ‘povertà’ non spiega come si possa giungere a considerare quell’azione di poca importanza, ma che qui evoca il miracoloso passaggio a una visione trascendente.

Realisticamente invece, in Dry Salvages si ammetteva che “La giusta azione è una libertà/ Dal passato come dal futuro./ Per molti di noi questo è il fine/ Che qui non si realizzerà mai.”[75]

IX b. Teologia Negativa

Un altro passo sapienziale però seguiva quella che è stata definita la “marcia funebre” (in East Coker) – dove tutti vanno nella tenebra (O dark, dark, dark), anzi nei “vuoti spazi interstellari, il vuoto va nel vuoto” (come nel Buddhismo la shunyata è vuotezza anche della vuotezza stessa), e tutti andiamo nel funerale silenzioso di nessuno, “perché non c’è nessuno da seppellire/ Dissi all’anima mia fermati, e lascia che la tenebra scenda su di te/ Sarà la tenebra di Dio./ […][76]. Seguendo la suggestione biblica, il Poeta allora rivolge all’umanità un invito dall’inconfondibile sapore mistico:

Dite che sto ripetendo/ Quanto detto prima. Lo dirò ancora./ Devo dirlo di nuovo ? per arrivare lì/ Dove siete/ Per uscire da dove non siete,/ Dovete andare per una via dove non c’è estasi./ Per arrivare a quello che non sapete/ Dovete andare per la via dell’ignoranza./ Per possedere ciò che non possedete/ Dovete andare per la via della spoliazione./ Per arrivare a ciò che non siete/ Dovete andare per la via in cui non siete./ E quello che non sapete è l’unica cosa che sapete/ E ciò che possedete è quanto non possedete/ E dove siete è dove non siete.”[77]

E’ il ritmo dialettico della teologia negativa o apofatica (fin dallo Pseudo-Dionigi Areopagita), più vicino a noi è Meister Eckhart (coevo di Dante), e ancor più l’ultimo grande poeta mistico europeo, Juan de la Cruz (morto nel 1591). Qui gli esempi potrebbero moltiplicarsi all’infinito, perché tutta la poesia sapienziale, di ogni tempo e latitudine, è costruita sulla negazione della negazione e sul paradosso. Si può considerare apofatico già Lao Tse, il cui famoso libro inizia con “Il tao di cui si può parlare non è il vero tao[78]; oppure il Discorso della Montagna o delle Beatitudini: “Beati i poveri di spirito, perché loro è il regno dei cieli[79], etc. Per Eckhart “nulla sapere nulla avere nulla volere”, la spoliazione assoluta dall’io è la via unitiva, l’identificazione con Dio. Ed è solo nella notte oscura dell’anima, nell’assoluta tenebra sul reale, nello svuotamento delle stesse proprietà o virtù (fede speranza carità) che Juan trova l’estasi, il nulla-dio. Un’ottava di Subida del Monte Carmelo potrebbe essere la fonte diretta dell’esortazione di Eliot: “Per arrivare a ciò che piace/ devi andare per dove non piace./ Per arrivare a ciò che non sai/ devi andare per dove non sai./ Per arrivare a ciò che non hai/ devi andare per dove non hai./ Per arrivare a ciò che non sei/ devi andare per dove non sei.[80] Si tratta di una forma mnemonico-didattica (facile rima), tipica delle coplas popolari, e potrebbe risalire al sufismo mediorientale attraverso Raimondo Lullo – afferma Giorgio Agamben.[81] Le Poesie di Juan de la Cruz sono gemme del misticismo universale, quali com-posizioni del negativo[82] (che per Hegel è l’essenza della filosofia, il suo “spirito assoluto”). Alcune coplas di più intenso dolore e più acuta privazione potrebbero rappresentare il cuore del tormentato cristianesimo di Eliot (e dei Quartetti), per esempio la IV Coplas dell’anima che smania per vedere Dio: (“[…] Vivo senza vivere in me/ e tanto forte spero/ che muoio di non morire”, […] Toglimi da questa morte/ mio Dio e dammi la vita […] O Signore, quando sarà ?/ Quando finalmente dirò/ Ora vivo di non morire[83]. O come inno alla imperscrutabilità la X “Glosa al divino”: […] Per tutta la bellezza/ Io mai mi perderò,/ Ma per un non so che/ Che si trova per caso […].

IX c. Sacrificio

Questa felicità che la fede trova per caso (por ventura) è forse quanto di più distante dalla modernità, e quindi da Eliot, ma è un aspetto del ‘cuore cristiano’ che in lui stiamo investigando. In effetti, i Quattro Quartetti compongono un percorso sacrificale, in cui l’individuo agisce e parla in nome della Comunità – Eliot stesso una volta tanto in prima persona: “E così io sono qui, nel mezzo del cammino, avendo avuto vent’anni/ In gran parte sprecati, gli anni entre deux guerres/ Cercando d’imparare a usare le parole al meglio/ Per ciò che non si ha più da dire/ O nel modo in cui non si è più disposti a dire.” [84]

Questa tragica presa d’atto della perfetta vanità della poesia stessa ha il suo riscatto, non solo nell’indicazione dell’ umiltà quale unica virtù (“L’unica saggezza che possiamo sperare d’acquisire/ E’ la saggezza dell’umiltà: l’umiltà è senza fine[85]), ma nell’instancabile mai arrendersi, sempre ricominciare, spingendo più avanti la meta: “Attraverso il freddo buio e la vuota desolazione/ Dobbiamo restare immobili e muovere ancora/ Verso un’altra intensità/ Un’altra unione, una più profonda comunione.” [86] E poi, come se l’unica femminilità rappresentabile nei Quartetti fosse questa pietas per la terra – le impalpabili colline di Londra (“Eruttazione d’anime malsane/ Nell’aria impallidita, gl’ignavi/ Portati dal vento che spazza le cupe colline di Londra,/ Hampstead e Clerkenwell, Campden e Putney,/ Highgate, Primrose e Ludgate[87] – e la terra stessa, devastata e abbandonata subito dopo le enclosures, ma un tempo così felicemente calpestata dai contadini, Eliot dipinge la danza negli open fields, sulla terra comune:

Nell’aperto campo/ Se non ti avvicini troppo/ Una mezzanotte d’estate sentirai la musica/ Del flauto dolce e del tamburello/ E li vedrai danzare intorno al falò/ Insieme uomini e donne/ Come in matrimonio/ […] A due a due, tenendosi per mano o al braccio/ […] Girando e girando al fuoco/ Saltando tra le fiamme, o uniti in cerchio,/ Rusticamente solenni e rusticamente ridenti/  Sollevando i piedi pesanti nelle goffe scarpe,/ Piedi di terra, piedi fertili, alti nell’allegria della campagna/ Allegria di chi a lungo sotterra/ Ha nutrito il grano. Tenendo il tempo,/ Tenendo il ritmo in quella danza/ Come la vita nelle stagioni che vivono/ Il tempo delle stagioni e quello delle costellazioni/ Il tempo del mungere e il tempo del mietere/ Il tempo di accoppiarsi uomo e donna/ E delle bestie. Piedi che si levano e ricadono./ Mangiare e bere. Letame e morte.”[88]

In questo squarcio, che inanella un microcosmo umano all’universale, per una volta Eliot rifonde il senso intero della Comunità, quasi l’utopia d’un tempo non più richiamabile, ritrovando una paganità (corretta nel sacramento del matrimonio !) così piena di sapori e odori, di suoni e ritmi, di fusione con la Natura.

Ma bisogna ricordare anche la terra-ospedale: il IV movimento di East Coker scatena una metafora terapeutica avvitata nel polemos politico-spirituale cristiano – prossima allo straziante inno alla Vergine di Mercoledì delle ceneri (Ash Wednesday, 1930) e davvero attualissima: sentiamo la compassione nella mano del chirurgo “ferito”, e un’infermiera “morente” ricorda “la maledizione di Adamo” e che “per guarire la malattia si deve aggravare”:

La terra intera è il nostro ospedale/ Finanziato da un milionario in rovina,/ Qui, se va bene, noi/ Moriremo dell’assoluta paterna cura/ Che non ci lascerà, ma ovunque ci precede. […] Sangue stillante è la nostra unica bevanda,/ Carne sanguinante l’unico cibo:/ A dispetto di ciò ci piace pensare/ Che siamo davvero sostanziale carne e sangue/ E inoltre, a dispetto di questo, lo chiamiamo Venerdì santo.”[89]

 

IX d. La Storia

E’ vero che il quarto Quartetto, Little Gidding[90] (1942) è la summa e ricapitolazione dei temi toccati nei precedenti, ma è anche quello ricco di novità, in primis la presenza di un’inquietante dark dove, “nera colomba” (antifrasi per aquila) con una scia di fuoco per le strade di  Londra. Una cosa è subito chiara: “ci sono molti luoghi-fine del mondo, ma questo è il più vicino[91], ed è in Inghilterra”. Si viene in questa cappella per pregare, cioè entrare in comunione coi morti.

Il “metodo mitico” si è completamente attualizzato, l’irruzione della Storia è tragica e devastante. Subito è la “morte dell’aria” per la polvere, poi sono “Acqua morta e sabbia morta/ Che si contendono la vittoria[92]. Quindi un’atmosfera ‘dantesca’ prepara l’incontro col Maestro: “verso il termine della notte interminabile/ Alla fine ricorrente di ciò che non ha fine[93]. L’incontro in strada con l’anonimo “maestro morto”, some dead master (uno per tutti), condensa finalmente la svolta cristiana: ora “il passato è passato” davvero, e occorre trovare parole nuove per il futuro – in primo luogo il perdono per tutti. Prima di accomiatarsi infatti, l’altro ammonisce il Poeta sui “brutti doni” che la vecchiaia porta: la rabbia per i sensi affievoliti, il non più divertirsi alla follia umana, e soprattutto “Il doloroso strazio di rivivere/ Tutto ciò che facesti, e fosti; la vergogna.[94]

Appena il Poeta è di nuovo solo espone la (non cristiana) dottrina del distacco (già vista), e con nuovo understatement dichiara che la storia può esser libertà. Si guardi a come svaniscono volti e luoghi,/ e noi stessi che come potemmo li amammo,/ per rinnovarsi, trasfigurati, in un’altra trama.[95] Da questo momento infatti l’understatement verrà impiegato per rivelazioni di teologia positiva: da Giuliana di Norwich (1342-1416), mistica inglese di rango (Santa per gli anglicani, Beata per i cattolici), e dalla Nube della Non-Conoscenza (The Cloude of Unknowyng), trattato anonimo inglese del XIV secolo. Che Eliot abbia scelto per il finale l’ottimismo teologico della prima e il sapore zen nel titolo della seconda è di nuovo un indice del suo cercare a Oriente un sostegno religioso.

Di Giuliana è interessante lo sfiorare l’eresia nella concezione di Dio Madre oltre che Padre – e quindi del suo amore incondizionato per tutti – nonché la sua idea di peccato. Eliot così infila la sua citazione: “Peccare è necessario, ma/ tutto sarà bene e/ Ogni sorta di cose sarà bene.”[96] L’arcaico Behovely, fra le pochissime maiuscole dei Quartetti, ha il senso religioso di necessario in quanto adatto, utile, giusto. Infatti per Julian of Norwich non solo il peccato non ci diminuisce agli occhi di Dio, ma ci mantiene umili e miti, consapevoli e pronti a tornare fra le braccia di Gesù Madre – e non per farci perdonare, perché peccare è solo il processo di apprendimento della vita.[97]

Ma Eliot subito ‘torna a bomba’, al presente storico nella Cappella:

Se penso, ancora, a questo luogo,/ E a persone, non sempre ammirevoli,/ Non strettamente legate da parentela o amicizia,/ Ma alcune dotate di un genio peculiare,/ Tutte giocate da un genio comune,/ Unite dalla contesa che le divise;/ Se penso a un re al cadere della notte,/ A tre uomini, e più, sul patibolo/ E ad alcuni che morirono dimenticati/ In altri luoghi, qui e in terra straniera,/ E a uno che morì cieco e calmo,/ Perché dovremmo celebrare/ Questi morti più dei morenti?[98]

I “morenti” sono tutti i vivi, non solo destinati a morire, ma già “uomini vuoti”. L’unico “morto cieco e quieto” è forse Milton, oppure Joyce, morto a Zurigo nel’41. Eliminando qualunque vuota retorica, soggiunge che dai vincitori e dai vinti si è imparato che c’è solo un partito, quello dei morti: tutto sarà bene, sì, ma “purificando il motivo della nostra supplica”. Così, ripresentandosi la colomba che spezza l’aria con incandescente terrore, le sue lingue indicano l’unica di-speranza possibile: scegliere d’esser redenti dal fuoco con altro fuoco[99]. Nient’altro che questo è l’Amore: “l’intollerabile camicia di fuoco/ che il potere umano non può togliere./ Noi possiamo vivere, sospirare soltanto/ Consumati da un fuoco all’altro.”[100]

Il canto prosegue e termina con ciò che si potrebbe chiamare l’anello del sacrificio, la religio con cui Eliot sposa la ‘sua’ Inghilterra, e con essa l’Europa cristiana in pericolo:

Qualsiasi azione/ non è che un passo verso il patibolo, verso il fuoco, giù nella gola del mare,/ o verso una pietra illeggibile – ciò da cui partiamo./ Moriamo coi morenti, nasciamo coi morti./ Così il momento della rosa e quello del tasso/ hanno uguale durata. Un popolo senza storia/ non si affranca dal tempo, perché la storia è una trama/ di momenti senza tempo. Così, mentre cade la luce/ d’un pomeriggio d’inverno nella solitaria cappella,/ la Storia è ora l’Inghilterra.”[101]

Avrebbe potuto terminare qui, ma come in musica così in poesia, compare talvolta l’esigenza di ribadire le movenze chiave (“Presto, ora, qui, per sempre”, v.252) magari a uso dello spettatore.  E così tornano l’Amore e la Sua Chiamata[102], il riconoscere il luogo dell’inizio come fosse la prima volta, i bambini nascosti nel melo uditi ridere, il <sarà bene ogni genere di cosa>, nella <semplicità totale>, in cui <il fuoco e la rosa sono tutt’uno>, ossia dove finalmente si possa vivere l’unità degli opposti.

X. Conclusione

Si può con Luzi convenire che “non vi è nella letteratura moderna cristianesimo più giustificato[103], riconoscendo però al tempo stesso che – mentre lo sperimentalismo poetico e critico di Eliot è sempre attualissimo – si rivelano fallaci i suoi tentativi di creare sincretismi o parallelismi (tantomeno esoterici) con teorie e pratiche sapienziali di culture non-europee (il “metodo mitico”)[104]. Nessuna via di fuga dal pessimismo cristiano: la verità eliotiana rifulge nel suo accorato appello alla solidarietà (in primis coi morti!) proprio nel momento del pericolo. Lo testimoniano anche gli interventi successivi ai Quartetti, What is a Classic ? (1945), le conferenze rivolte alla Germania The Unity of European Culture (1946)[105], il discorso The Good European (1951): “L’Europa è un organismo che non può godere di salute se non vi circola un’unica corrente sanguigna, che è la letteratura classica, greca e latina… Virgilio (con Dante) è il nostro ‘padre’ culturale, e poi Shakespeare” L’inglese, dunque, come nuovo latino ed Eliot stesso come nuovo Virgilio ? Sono interventi di estrema attualità politico-culturale: “Essere un non richiede una diminuzione di identità locali e nazionali o, dal lato dell’individuo e del linguaggio, una qualsivoglia riduzione dell’autostima, che è la base necessaria […] Dobbiamo avere più strette relazioni con gli stati con cui già scorre una simpatia forte e incorruttibile (vedi Francia con Inghilterra) […]”.

La Bibliografia del presente lavoro è dal Lettore riscontrabile sulle note a piè di pagina, più puntualmente utili che un elenco alfabetico generale di titoli. Tutte le traduzioni sono riprese dalle fonti indicate, ma riviste da chi scrive. I corsivi all’interno di citazioni sono sempre di chi scrive.

 

Nicola Licciardello

luglio-dic. 2019

[1] Il IV movimento del Quarto Quartetto di Eliot, Little Gidding, è stato musicato da Strawinskij nell’inno The Dove Descending Breaks the Air (1962).

[2] Ezra Pound, Dante dalle carte di Scheiwiller, a cura di Corrado Bologna e Lorenzo Fabiani, Marsilio 2015: aggiorna e stampa le bozze già Scheiwiller 1965 che erano a cura di Maria Corti.

[3] Si veda: Don Francesco Ricossa, Pound e la Teosofia, in “Sodalitium”, anno XXXI, n. 4, dicembre 2015.

[4] Demetres Tryphonopoulos, Pound e l’occulto. Le radici esoteriche dei Cantos, Mediterranee, Roma 1998.

[5] Musicista influenzato dalla Teosofia di Madame Blavatskij, associava i colori alle tonalità musicali.

[6] Simona Cigliana, Futurismo Esoterico (La Fenice 1996); Guido Andrea Pautasso, Vampiro futurista (Vanila 2018). Ma è già nutrito l’elenco di poeti e scrittori italiani affiliati alla Massoneria o almeno impegnati in una via esoterica contro il positivismo: Carducci, Pascoli, D’Annunzio, De Amicis, Collodi, Quasimodo, Capuana, Pirandello, Fogazzaro, etc.

[7] Cambridge University Press, Massachussetts.

[8] Le classificazioni sono sempre scivolose, ma il discorso sulla Poetica Quantica è interessante per le notevoli implicazioni. Samuel Matlack lo riprende (Quantum Poetics, The New Atlantis 2017) in un raffronto scienza-poesia che coinvolge il fisico Carlo Rovelli.

[9] Il genio di Alan Turing (Macchine calcolatrici e intelligenza, 1950) anticipava più drammaticamente: “Lo spostamento di un singolo elettrone per un miliardesimo di centimetro, a un momento dato, potrebbe significare la differenza tra due avvenimenti molto diversi, come l’uccisione di un uomo un anno dopo, a causa di una valanga, o la sua salvezza”.

[10] Fisico iracheno all’Universita’ del Surrey, direttore di una serie di documentari per la BBC, spesso ritrasmessi dalla Rai.

[11]Giocava abbastanza bene, con poco stile ma con inesauribile energia e combattività” ricorda Massimo Bacigalupo dalle note del padre Giuseppe, che a Rapallo giocava a tennis con Pound (https://www.linkiesta.it/it/article/2018/10/10/nessuno-legge-ezra-pound-ma-ogni-sua-pagina-e-una-sorpresa/39681).

[12] Enorme in Italia il dibattito su questa intervista, solo parzialmente trasmessa dalla Rai. Si veda almeno: Angela Felice, In margine all’intervista televisiva di Pier Paolo Pasolini  Un’ora con Ezra Pound. (www.centrostudipierpaolopasolinicasarsa.it/…/ppp-intervista-ezra-pound-di-angela-felice).

[13] E. Pound, Dante, cit., p.167.

[14] Ivi, pp.27-78.

[15] L’edizione consultata da Pound è Il linguaggio segreto di Dante, “Optima”, Roma 1928.

[16] Rimandiamo a un approfondimento successivo le implicazioni di questo passaggio poundiano di grande interesse.

[17]Nor began nor ends anything./ Boy in the fruit shop would also have liked to write something./ but said: / The kindness, infinite of her hands./ Sea, blue under cliffs, or/ William murmuring: <Sligo in heaven> when the mist came/ to Tigullio. And the truth is in the kindness.”

[18] Così prosegue: “Così son Dante per un po’ e sono/ un certo François Villon, ladro poeta/ o sono chi per santità nominare / farebbe blasfemo il mio nome;/ un attimo e la fiamma muore./ Come nel centro nostro ardesse una sfera/ trasparente oro fuso, il nostro “Io”/ e in questa qualche forma s’infonde:/ Cristo o Giovanni o il Fiorentino;/ e poi che ogni forma imposta/ radia il chiaro della sfera,/ noi cessiamo dall’essere allora/ e i maestri delle nostre anime perdurano.”

[19] E. Zolla, Uscite dal mondo, Adelphi, Milano 1992, p.175.

[20] Articles of Agreement for a Treaty Between Great Britain and Ireland (6 dicembre 1921).

[21]John Synge, I and Augusta Gregory, thought/ All that we did, all that we said or sang/ Must come from the contact with the soil, from that/ Contact everything grew strong./ We three alone in modern times had brought/ Everything down to that sole test again,/ Dream of the noble and the beggar-man”.

[22] An Irish Airman Foresees his Death  (September 1913):  /…/”Those that I fight I do not hate/ Those that I guard I do not love;/ My country is Kiltartan Cross/ My countrymen Kiltartan’s poor,/ No likely end could bring them loss/ Or leave them happier than before./ Nor law, nor duty bade me fight,/ Nor public man, nor cheering crowds,/ A lonely impulse of delight”/…/.

[23] Da Easter 1916: “That is Heaven’s part, our part/To murmur name upon name,/ A s a mother names her child/ When sleep at last has come/ on limbs that had run wild.”

[24]When long ago I saw her ride/ Under Ben Bulben to the meet,/ The beauty of her country-side/ With all youth’s lonely wildness stirred,/ She seemed to have grownclean and sweet/ Like any roch-bred, sea-borne bird.”

[25]If I make the lashes dark/ And the eyes more bright/ And the lips more scarlet,/ Or ask if all be right/ From mirror after mirror,/No vanity’s displayed:/ I’m looking for the face I had/ Before the world was made. /…/

[26] E. Zolla, Storia del fantasticare (1964), sezione seconda: L’Inghilterra e lo spleen fantastico, ora in: Il serpente di bronzo, a cura di G.Marchianò, Marsilio 2015, p. 381. Si veda anche ID., Lo stupore infantile, Adelphi, Milano 1994 pp.203-213.

[27] Il brano prosegue affrescando il quadro con accenti ‘sincretisti’: “Credo che potrei trovare in una qualche osteria un mosaicista ‘filosofo’ che saprebbe rispondere a tutte le mie domande, poiché il sovrannaturale discende più vicino a lui che allo stesso Plotino (…) Credo che agli inizi della civiltà bizantina, forse mai prima di allora né dopo nella storia di cui si ha memoria, la vita religiosa, estetica e pratica erano tutt’uno, e che l’architetto e l’artefice (…) si rivolgevano parimenti alla massa e ai pochi. Il pittore, il mosaicista, coloro che lavoravano l’oro e l’argento, il miniaturista di libri sacri erano quasi impersonali (…), tutti presi dal loro soggetto che era la visione di un intero popolo.” Una chiara e ben documentata fonte d’informazione sull’esoterismo e il nazionalismo di Yeats è Cesare Catà (University of Macerata), Before Ireland was made. Il Nazionalismo Neoplatonico di W.B.Yeats (www.academia.edu).

[28] Rivista da chi scrive è qui la traduzione di Giorgio Manganelli – la migliore in italiano secondo Viola Papetti, Universita’ di Roma 3, in All’ombra del mago oscuro W.B.Yeats,  Studi Irlandesi. A Journal of Irish Studies, n.2 (2012), pp.143-154 (www.academia.edu). Delle quattro strofe, qui si riporta la terza e la quarta.

[29]Many times man lives and dies/ Between his two eternities,/ That of race and that of soul/And ancient Ireland knew it all”, in A.G. Stock, “Su Una visione”, in W.B.Yeats: His Poetry and Thought, Cambridge 1961, poscritto a Una Visione, cit.

[30] Così Eliot si autodefinva in For Lancelot Andrews (1928); anglocattolico dal 1927, dunque non al tempo de La Terra Desolata.

[31] E le Neo-Avanguardie (seconda metà ‘900) ne sono pervase e giustificate: si pensi all’iperironia di un Edoardo Sanguineti.

[32] Tale che solo 40 anni più tardi una Premier britannica potrà dichiarare che “la società non esiste”.

[33] In Tradition and the individual talent (1919, poi in The sacred wood, 1920); Tradizione e talento individuale, in Il bosco sacro, Milano 1967-2010.  Mario Praz riprende il discorso in T. S. Eliot poeta cristiano (“La Stampa”, Torino, 7 settembre 1934). Il suo richiamo alla Tradizione dissolve l’intento ‘alternativo’ dell’avanguardia, ma lo aiuta a esprimere più intensamente il degrado attuale.

[34] In Hamlet and His Problems, poi in The Sacred Wood, 1920 (Il bosco sacro), attribuendolo a Shakespeare.

[35] Eugenio Montale, Ricordo di T. S. Eliot, “Corriere della Sera” 6 gennaio 1965. Montale, che fu piacevolmente colpito dalla lettura vocale di Eliot, tradusse soltanto tre sue poesie, prendendone sempre più le distanze: si veda Ernesto Livorni, Montale traduttore di Eliot: una questione di “Belief”, (http://tdtc.bytenet.it/comunicati/livorni-montale.pdf). Il saggio esemplifica efficacemente i ‘tradimenti’ traduttivi montaliani poco rispettosi del cristianesimo eliotiano. Più avanti si veda il suo giudizio su La terra desolata.

[36] Hugo Friedrich, La lirica moderna, Garzanti, Milano 1961.

[37] Su “The Dial”, novembre 1923.

[38] Si veda l’interessantissimo studio, transculturale e illustrato: Riōsuke Ōhashi, Kire: il bello in Giappone, Mimesis, Milano 2017.

[39] Oikosofia. Dall’intelligenza del cuore all’ecofilosofia, QUADERNI DI STUDI INDO-MEDITERRANEI X (2017), Mimesis 2018.

[40] Ineguagliata l’agile e accuratissima La Terra Desolata, a cura di Alessandro Serpieri, BUR, Milano 1985, vii edizione nel 2018.

[41] Marjorie Perloff (The Futurist Moment: Avant-Garde, Avant-Guerre, and the Language of Rupture (Univ. of Chicago Press 2003) e Kenneth Goldsmith (Uncreative Writing: Managing Language in the Digital Age, Columbia Univ. Press 2010) confermano la prassi citazionale e la recriture, quali logiche implicate dalla postmodernità digitalizzata.

[42] E infatti, nella crisi sofferta in clinica a Losanna, sul Sermone del Fuoco (quadro III del poemetto) che a un certo punto gli esce di getto, così confessa Eliot: “fu il sollievo da una personale lagnanza contro la vita, un pezzo di lamentela ritmica.”

[43] J. Weston, Indagine sul Santo Graal, Sellerio, Palermo 1994; J. Frazer, Il ramo d’oro, Bollati Boringhieri, Torino 1990.

[44] Simbolo sacrificato e poi fatto risorgere in una varietà di riti non solo mediterranei (Tammuz, Osiride, Adone, Attis, Orfeo; nel Ṛg Veda non viene sacrificato un dio ma il Cavallo) – la cui leggenda riportano i testi medievali Perceval o Conte du Graal (Chrétien de Troyes), Le Roman de l’estoire dou Graal, Merlino, Perceval (Robert de Boron), Parzival (Wolfram von Eschenbach).

[45] Ma nulla rivela sull’arciduca Rodolfo, le cui gesta la pruderie vittoriana unita al fiuto di poeta avrebbero potuto fargli intuire.

[46]Unreal City,/ Under the brown fog of a winter dawn,/ A crowd flowed over London Bridge, so many,/ I had not thought death had indone so many./ Sighs, short and infrequent, were exhaled/ And each man fixed his eyes before his feet” (vv. 60-65).

[47] Così prosegue: “Le unghie rotte di mani sporche./ La mia famiglia gente umile che non aspetta/ niente./ la la// A Cartagine poi venni// Bruciando bruciando bruciando bruciando/ O Signore Tu mi cogli/ O Signore tu cogli// bruciando.” (“The broken fingernails of dirty hands./ My people humble people who expect/ Nothing./ la la/ To Carthage then I came// Burning burning burning burning/ O Lord Thou pluckest me out/ O Lord Thou pluckest// burning”).

[48] 5, 2 (anziché 5, 1 come scrive l’Autore).

[49] Si verificherà che i Deva eseguono con più cura, e perciò sono superiori agli Asura: vedi R. Panikkar, I Veda, BUR 2016, p.512.

[50] Quest’ultima notazione riprende quella pessimistica di Herman Hesse sulla Rivoluzione russa in Blick ins Chaos.

[51] Annota Eliot: come accade nell’estremo stress di certe spedizioni polari.

[52] Quest’opera di Stravinskij (1909) segna l’inizio della collaborazione (L’Oiseau de Feu, Le Sacre) col coreografo Sergej Djagilev.

[53] “Pace che sorpassa l’intelligenza”, annota l’Autore.

[54] Montale traduttore di Eliot, in Livorni, op. cit., p.143.

[55] Quartetto di Olivier Messiaen, dedicato all’Apocalisse di Giovanni, composto nel 1940 nel campo di concentramento Stalag VIII-A, e lì eseguito il 15 gennaio 1941. Una junghiana sincronicità con i Quartetti eliotiani è troppo forte per ignorarla. La struttura in 8 movimenti (Liturgie de cristal, Vocalise pour l’Ange qui annonce la fin du Temps, Abîme des Oiseaux, Intermède, Louange à l’Éternité de Jésus, Danse de la fureur pour les sept trompettes, Fouillis d’arcs-en-ciel, Louange à l’immortalié de Jésus), le note di Messiaen e l’esito musicale agonico ne provano il carattere mistico e di avanguardia, al centro della tragedia storica, come per i Quartetti di Eliot.

[56] In tal direzione le letture (anche vocali) più significative dei Quartetti: Angelo Tonelli, Raffaele La Capria, Emilio Clementi.

[57]La classicità magnetica dei Quartetti di Eliot tradotti da Raffaele La Capria”, “Il Foglio” 5 gennaio 2014, appena uscita la preziosa edizione Damiani con le illustrazioni di José Muñoz).

[58] Partendo dall’idea che vi è un’Unica Tradizione comune all’umanità, che parla lingue diverse a seconda della cultura.

[59] Nome di una casa di campagna visitata da Eliot nelle Cotswold Hills, Gloucester.

[60] Burnt Norton, vv. 9-10: What might have been and what has been/ Point to one end, which is always present.

[61] Ivi, vv. 62-63 e 86-90: At the still point of the turning world. Neither flesh or fleshness;/ Neither from nor towards; at the still point, there the dance is […] But only in time can the moment in the rose-garden/ The moment in the arbour where the rain beat,/ The moment in the draughty church at smokefall/ Be remembered; involved with past and future./ Only through time time is conquered.

[62] Ivi,vv.86-89: But only in tome Can the moment in the rose-garden,/ The moment in the arbour where the rain beat,/ The moment in the draughty church at the smokefall/ Be remembered: involved with past and future./ Only through time time is conquered.

[63] Così parlò Zarathustra, sez. III, La Visione e l’enigma, 2, 28-44, p.192 (trad. M. Montinari), Adelphi vol. VI, 1973.

[64] Ivi, vv. 146-149: the end precedes the beginning,/ And the end and the beginning were always there/Before the beginning and after the end./ And all is always now.

[65] Villaggio del Somerset vicino al mare, da cui nel XVII secolo era partito per l’America Andrew Eliot antenato del poeta, e nel cui cimitero il poeta è ora sepolto.

[66] In my beginning is my end. Of your kindness, pray for the soul of Thomas Stearns Eliot, poet. In my end is my beginning. Ma la derivazione dichiarata è dal motto en ma fin gît mon commencement, che figurava nei lavori di ricamo di Mary Stuart, verosimilmente ispirato al titolo d’una composizione polifonica di Guillaume de Machaut.

[67] Little Gidding, vv. 226-227: Every phrase and every sengtence is and end and a beginning/ Every poem is an epitaph.

[68] Terzo Quartetto (1941). Il nome proviene da Les trois sauvages, gruppo di rocce con un faro, sulla costa nordest di Cape Ann, Massachusetts. Con la famiglia nell’infanzia Eliot frequentava la località.

       [69] vv.49-55: Where is there an end of it, the soundless wailing,/ The silent withering of autumn flowers/ Dropping their petals and remaining motionless;/ Where is there an end to the drifting wreckage,/ The prayer of the bone on the beach,/ the unprayable Prayer at the calamitous annunciation?// There is no end, but addition […]

[70] Dry Salvages, vv. 124, 129-131: I sometimes wonder if that is what Khrisna meant-[…]/ The way up is the way down, the way forward is the way back./ You cannot face it steadily, but this thing is sure,/ That time is no healer: the patient is no longer here.

[71] Dry Salvages, vv. 155-162, 169-170 : At the moment which is not of action or inaction/ You can receive this: – That is the one action/ (and the time of death is every moment)/ Which shall fructify in the lives of others:/ And do not think of the fruit of action./ Fare forward./ […] Not fare well,/ But fare forward, voyagers.

[72] Burnt Norton vv. 43-44: Go, go, go, said the bird: human kind/ Cannot bear too much reality.

[73] Little Gidding, vv.157-159: Not less love but expanding/ Of love beyond desire, and so liberation/ From the future as well as the past.

[74] Ivi, vv. 159-162: love of a country/ Begins as attachment to our own field of action/ And comes to find that action of little importance/ Though never indifferent.

[75] Dry Salvages, vv. 224-227: And right action is freedom/ From past and future also./ For most of us, this is aim/ Never here to be realised.

[76] East Coker, vv. 110-113: And we all go with them, into the silent funeral,/ Nobody’s funeral, for there is no one to bury./ I said to my soul, be still, and let the dark come upon you/ Which shall be the darkness of God.

[77] East Coker vv. 134-146: You say I am repeating/ Something I have said before: I shall say it again./ Shall I say it again ? in order to arrive there,/ To arrive where you are, to get from where you are not,/ You must go by a way wherein there is no ecstasy./ In order to arrive at what you don’t know/ Yiu must go by a way which the way of ignorance./ In oder to possess what you do not possess/ You must go by the way of dispossession./ In order to arrive at what you are not/ You must go through the way in which you are not./ And what you do not know is the only thing you know/ And What you own is what you do not own/ And where you are is where you are not.”

[78] Traduce ogni segno cinese (riportato) in 5 o 6 letture possibili Augusto Shantena Sabbadini, TAO TE CHING, Urra-Apogeo, Milano 2009. Un altro esempio, dal Cap. 7: “Cielo e terra durano a lungo perché non vivono per se stessi. […] Il saggio non avendo fini personali, può realizzare fini personali; o dal Cap. 25: “[…] Grande significa partire, partire significa andare lontano, andare lontano significa ritornare. […]

[79] O il Discorso della Pianura di Luca (6, 17-49).

[80] Para venir a lo que gustas/ has de ir por donde no gustas./ Para venir a lo que no sabes/ has de ir por donde non sabes./ Para venir a poseer lo que no posees/ has de ir por donde no posees./ Para venir a lo que no eres/ has de ir por donde no eres / […]”: Juan de la Cruz, Opere, a cura di P.P.Ottonello, Utet 1993, qui in: Anna Serra Zamora, Mappa Animae. La Visione dell’interiorità in san Giovanni della Croce, in La visione, a cura di F. Zambon, edizioni Medusa, Milano 2012, p. 160.

[81] Si veda Juan de la Cruz, Poesie, a cura di G.Agamben, Einaudi 1974: “Lullo, nel Libro di Amico e Amata si era fatto portavoce dei sufi: << I Saraceni hanno taluni uomini religiosi e fra questi sono persone dette sufi, le quali hanno parole d’amore ed esempi abbreviati per infondere molta devozione…>>. La parola Sufi semplicemente viene da suf = lana, la stoffa del loro protettivo abito.

[82] Este saber no sabiendo, “Questo sapere non sapendo”, Es de tan alto poder,/ Que los sabios arguyendo/ Jamás le pueden vencer;/ Que no llega su saber/ A non entender entendiendo,/ Toda sciencia trascendiendo (“ha così alta potenza/ che i savi coi loro argomenti/ non possono vincerlo;/ perché il loro sapere non giunge/ a non intendere intendendo/ ogni scienza trascendendo”).

[83] IV: Vivo sin vivir en mí,/ Y de tal manera espero/ Que muero porque no muero […] Sácame de aquesta muerte,/ Mi Dios, y dame la vida; […] ¡Oh mi Dios ! ¿cuándo será ?/ Cuando jo diga de vero:/ Vivo ya porque no muero […]; X: Por toda la hermosura/ nunca jo me perderé/ Si no por un no sé qué/ Que se alcanza por ventura.

[84] East Coker, vv. 172-74 ; 176-78: So here I am, in the middle way, having had twenty years/ -Twenty years largely wasted, the years of l’entre duex guerres-/ Trying to learn to use words  […] one has only learnt to get the better of words/ For the thing one no longer has to say, or the way in which/ One is no longer disposed to say it.

[85] Burnt Norton vv.97-98: The only wisdom we can hope to acquire/ Is the wisdom od humility: humility is endless.

[86] Dry Salvages vv. 203-206: We must be still and still moving/ Into another intensity/ For a further union, a deeper communion/ Through the dark cold and the empy desolation.

[87] Burnt Norton vv.110-112: Eructation of unhealthy souls/ Into the faded air, the torpid/ Driven on the wind that sweeps the gloomy hills of London,/ Hampstead e Clerkenwell, Campden e Putney,/ Highgate, Primrose e Ludgate.

[88] East Coker vv.23-46: In that open field/ If you do not come too close […]/ On a summer midnight, you can hear the music/ Of the weak pipe and the little drum/ And see them dancing around the bonfire/ The association of man and woman/[…]/ Two and two […]/ Holding each other by the the hand or the arm/ […] Round and round the fire/  Lifting heavy feet in clumsy shoes,/ Earth feet, loam feet, lifted in country mirth/ Mirth of those long since under earth/ Nourishing the corn. Keeping time,/ Keeping the rhythm in their dancing/ As in their living in the living seasons/ The time of the seasons and the constellations/ The time of milking and the time of harvest/ The time of the coupling of man and woman/ And that of beasts. Feet rising and falling./ Eating and drinking. Dung and death.

[89] East Coker, vv. 157-171: The whole earth is our hospital/ Endowed by the ruined millionaire,/ Wherein, if we do well, we shall/ Die of the absolute paternal care/ That will not leave us, but prevents us everywhere./ […] The dripping blood our only drink,/ The bloody flesh our only food:/ In spite we like to think/ That we are sound, substantial flesh and blood–/ Again, in spite of that, we call this Friday good.

[90] Villaggio dell’Huntingdonshire, famoso per la comunità religiosa fondata nel 1626 da Nicholas Ferrar, affine a Port Royal. Il re Carlo I la visitò nel 1633 e poi nel 1646, fuggendo inseguito da Cromwell – il quale la soppresse. Eliot lo visita nel 1936.

[91] Eliot si mette al riparo dai bombardamenti di Londra andando nel Surrey.

[92] Ivi, vv.64-65: Dead water and dead sand/ Contending for the upper hand.

[93] Near the ending of interminable night/ At the recurrent end of the unending.

[94] ivi, vv.138-139: The rending pain of re-enactment/ Of all that you have done, and been; the shame.

[95] Ivi, vv. 163-166: History may be freedom. See, now they vanish,/ The faces and places, with the self which, as it could, loved them,/ To become renewed, transfigured, in another pattern.

[96] ivi, vv.166-169: Sin is Behovely, but/ All shall be well, and/ All manner of thing shall be well.

[97] Giuliana di Norwich, Libro delle rivelazioni (passim), Áncora, Milano 2003; D.S. Brewer, Revelations of Divine Love, 1998.

[98] Ivi, vv.169-181: If I think, again, of this place,/ And of people, not wholly commendable,/ Of no immediate kin or kindness,/ But of some peculiar genius,/ All touched by a common genius,/ United in the strife which divided them;/ If I think of a king at nightfall,/ Of three men, and more, on the scaffold/ And a few who died forgotten/ In other places, here and abroad, / And of one who died blind and quiet/ Why should we celebrate/ These dead men more than the dying?

[99] Ivi, vv.204-206: The only hope, or else despair/ Lies in the choice of pyre or pyre/  To be redeemed from fire by fire.

[100] Ivi, vv. 208-213: Love is the unfamiliar Name/ Behind the hands that wove/ The intolerable shirt of flame/ Which human power cannot remove./ We only live, only suspire/ Consumed by either fire or fire.

[101] vv.226-238: And any action/ Is a step to the block, to the fire, down the sea’s throat/ Or to an illegible stone: and that is where we start./ We die with the dying:/ See, they depart, and we go with them./ We are born with the dead:/ See, they return, and bring us with them./ The moment of the rose and the moment of the yew-tree/ Are of equal duration. A people without history/ Is not redeemed from time, for history is a pattern/ Of timeless moments. So, while the light fails/ On a winter’s afternoon, in a secluded chapel/ History is now and England.

[102] Tematizzato nella Nube della Non-Conoscenza, quale momento d’illuminazione che non cerca spiegazioni – le quali sempre aumentano la presunzione – ma si affida direttamente all’esperienza d’amore, frutto della preghiera del silenzio.

[103] M. Luzi, Grandezza di Eliot, “L’Approdo” V, XI, Roma 1965: “La grandezza di Eliot è nel suo insegnamento di umiltà e concretezza: egli non ignora e non rifiuta il carattere frammentario, i movimenti incoerenti e frenetici del mondo moderno: se li addossa anzi, li porta in sé come stimmate del tempo, ne diviene testimone e complice; ma non per giustificare una caduta e tanto meno una rinunzia […] rifiuta il canto di qualsiasi altra sirena che gliene offuschi la coscienza e ammorbidisca la presa. Eliot cammina trascinando dietro di sé tutto questo peso…e lentamente, al fondo dell’esperienza sofferta, trova la fede: severa, ardua, che non offende il dolore del mondo ma lo santifica […] Non vi è nella letteratura moderna cristianesimo più giustificato. Il male diventa espiazione, il tempo si riconnette all’eterno.

[104] Si veda The Idea of a Christian Society, London 1939; trad. it. Milano, 1948

[105] Si veda Europeista  ma non troppo: Eliot ci spiega chi è il buon Europeo, in “Pangea” 29 marzo 2019.

 

EZRA POUND: RIMANE CIO’ CHE PIU’ HAI AMATO

4 luglio 2019

di Nicola Licciardello

 

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Presentato al Centro di Ricerca Ezra Pound di Merano, ­Ho cercato di scrivere Paradiso, libro-intervista di Alessandro Rivali alla figlia di Pound Mary de Rachewiltz[1] è l’ultimo episodio della rivisitazione italiana del poeta, ormai senza pregiudizi ideologici[2]. Il libro trasmette anzi un’atmosfera rilassata di libere conversazioni, sviluppi con variazione del tema, personaggio o ricordo personale – un andamento jazz, coerente con la forma della scrittura poundiana – tesa a risolvere ritmicamente l’impossibilità di isolare le rotte narrative nell’oceano ormai globale di tutte le culture. Si da’ spazio alla tessitura di rapporti fra Pound e gli autori italiani, dagli ermetici agli editori come Vanni Scheiwiller – ma le citazioni più ampie sono dai poeti amici diretti di Pound, da Eliot a Hemingway a Williams, e da quelli di cui la stessa Mary de Rachewiltz si è occupata e ha tradotto in italiano: Jeffers, Cummings, Levertov.

Di Montale è noto il giudizio inizialmente limitativo che diede dei Cantos, mentre di Ungaretti Pound definì con ammirazione “intraducibile” il suo “m’illumino d’immenso”. Di Quasimodo si racconta il generoso intervento alla Statale di Milano nel 1961 per presentare Pound: “La sua ideologia è opposta alla mia, ma io onoro la poesia, una delle più importanti del mondo”. Quasimodo aveva tradotto in italiano Vana da A lume spento, la raccolta iniziale e autofinanziata del poeta americano appena sbarcato a Venezia: “/…/ invano ho detto al mio cuore ci sono poeti più grandi di te /…/ sempre la sua risposta è stata ‘ancora un canto’/…/ le parole sono foglie, vecchie foglie gialle già di primavera/ portate qua e là dal vento, vanno cercando un canto”. La parola canto è così emblematica di Pound, non solo perché Cantos è l’opera interminata della sua vita, con cui ha gareggiato con Dante stesso oltrepassando il numero 100 (“ho cercato di scrivere Paradiso”), ma perché la sua celebre oralità trasmette alla sua poesia una sorta di energia biblico-profetica, paradossale perché in contrasto con la sua vocazione umanistica.[3]

 

Di Cummings Mary ricorda come ad Harvard citava Rilke nell’affermare che solo l’amore può intendere la poesia, e la sua desacralizzazione dichiarando che “i poeti scrivono poesie perché è l’unica cosa che sanno fare, cercano di capitalizzare le loro nevrosi, ma un idraulico è più onesto”; però anche la delicatezza di una poesia a sua madre, e quella dedicata all’amico Pound[4]. Un’altra poeta cara a Mary è Denise Levertov, una ex “Black Mountain College” (contro la guerra in Vietnam) insieme a Robert Creeley, Robert Duncan, Charles Olson… Nella poesia Il saggio dice: “Il gatto mangia le rose:/ è fatto così/ Non fermarlo, non fermare/ il mondo che gira/ le cose stanno così”… e nella poesia 1961: “Quest’anno i grandi/ vecchi ci lasciano/…/ Non muoiono/ si ritirano /…/ S’arriccia il buio// nel vento, piccole sono/ le stelle all’orizzonte/…/ ci hanno dato la lingua da usare/…/ su questa interminabile/ strada pare che non si giunga/ al mare se alla fine/ non ci si pieghi un poco”/…/ . E poi Robinson Jeffers (di cui ha tradotto La Cretese, Scheiwiller 1961): “La sua poesia è un inno alla natura, alle forze telluriche, libere e purificate da quel microbo immondo che è l’uomo”. Mary lo traduce su suggerimento di Eva Hesse e lo va a trovare nella casa sull’oceano (“sea lions”) che si era costruito. “I poeti hanno solo bisogno di silenzio. Ma quella California non esiste più, i ricchi hanno disboscato e costruito ville. Pound non lo lesse, perché amava il Mediterraneo, la Grecia, i Classici. Jeffers invece era come nordico, scandinavo”. Un brano da Campofame (Hungerfield), dedicato alla moglie Uma: “Se il tempo è solo un’altra dimensione/ allora tutto cio’ che muore/ resta vivo, non annientato, tolto/ solo alla vista. Uma è ancora viva/anni fa: facciamo all’amore come falchi avidi/…/ Si commuove di gioia a tanta bellezza/…/ Non serve. Uma è morta, e io/ Resto ad aspettare la morte come albero spoglio/ Che aspetta le radici marciscano e il tronco cada”.

Mary dunque predilige la sincerità poetica fuori da convenzioni accademiche. Fin da piccola traduttrice designata[5]  del padre, cita per esteso il  canto XLIX, ispirato allo Sho-Sho-Hakkei. Otto scene lungo il fiume Sho-Sha, che la madre Olga le regalò in una versione su cartone e seta.[6] E con tenerezza ricorda il regalo del padre per il suo matrimonio con Boris de Rachewiltz: la traduzione di una poesia cinese, preceduta da <J’ayme, Donc Je Suis>: “Tanto è bella la casa di colei/ che a lui s’accompagna, come ramo d’ibisco/ bella, così bella/ Signora di Chang/ il tintinnio delle gemme/ che pendono dalla sua cintura/ durerà/ sino alla fine dei tempi/ per la tua sincerità”.

I trovatori e i Provenzali sono l’apprendistato del giovane Pound, che ancora in Usa li studia e traduce quali bardi e aedi omerici alle origini della cultura europea, Dante è la sintesi che lui stesso vuol superare coi Cantos da consegnare all’America-mondo. Lo intriga lo snodo di François Villon, che essendo “buono-crudele, onesto-disonesto, rovinato dalla cattiva economia, rappresenta la fine di una tradizione (‘où sont les neiges d’antan ?’, ‘dove sono le nevi di una volta ?’)”, e gli diviene il simbolo rivoluzionario della cultura europea: “l’arte nasce dal male”. Come per Cavalcanti, lo volge in musica perché “non è traducibile, la musica sopperisce dove non arriva la parola”. Ma la stessa Mary afferma che Pound ha sfatato il mito della intraducibilità della poesia, proprio in quanto “miglior fabbro” (del parlar materno)[7]. Del lavoro artigianale Mary ritesse le lodi, perché è esattamente il fulcro della modernità poundiana fare poesia sulla poesia, poesia al quadrato (e al cubo o all’ennesima). Se tale processo, sempre in progress, endless poem, è la forma ineludibile dell’epica moderna, il pietoso raccogliere i frammenti non solo della tradizione occidentale, ma dei Classici di tutte le altre, che nel tempo vanno sfaldandosi – “These fragments you have shelved (shored)”, “Questi frammenti hai dal naufragio… / (scaffalati)” traduce dal Canto VIII lo stesso Pound, come Eliot al termine della Terra Desolata: “These fragments I have shored against my ruins” (“Con questi frammenti ho rinforzato le mie rovine”)se cioè il naufragio è il destino, che il poeta stesso ‘rinforza’ – non siamo ancora alla fine, non siamo all’Apocalisse, e la Mary non ha alcuna inclinazione verso una lettura di questo tipo, invece ribadisce il valore salvifico, umanistico della poesia paterna. Quattro decenni più tardi, all’uscita dal manicomio, Pound infatti nel Canto CX ritorna su quei versi: “From time’s wreckage shored,/ these fragments shored against ruin, and the sun jih/ new with the day” (“Dal naufragio del tempo scaffalati,/ questi frammenti salvati dalla rovina/ e il sole jih/ ogni giorno nuovo”). Nessuna dissoluzione del soggetto dunque: anche se non compatto come a Londra prima e durante la Prima Guerra mondiale – quando su “The New Age” (l’Età Nuova) Pound stigmatizzava l’usura del lavoro e dell’arte invocando l’uomo artigiano – come allora, l’io ha la missione essenziale di ricordarlo. Mary torna più volte sui Canti pisani, fra cui l’LXXXI, la cui seconda metà è fra le cose più degne scritte dal padre: “Ciò che sai davvero amare rimane/ il resto è scoria/ Ciò che sai amare è il tuo vero retaggio/ Ciò che sai amare non ti sarà strappato/…/ Deponi la tua vanità, non è l’uomo/ che ha fatto il coraggio, o l’ordine o la grazia/.[8]

La nota di umiltà che traspare negli ultimi Drafts & Fragments – il CXVI conclude: “Ammettere l’errore senza perdere il giusto:/ Carità ho avuto talvolta,/ Non so farla scorrere./ Un po’ di luce, come un barlume / ci riporti allo splendore” – è, seppur ‘eroica’, confessione e richiesta di perdono per non aver saputo scrivere quel paradiso terrestre che si era prefisso. E dunque l’intervista da ottantatreenne concessa a Pasolini, pochi anni prima della scomparsa, è davvero un passaggio di testimone, a un figlio ‘degenere’ (comunista e omosessuale), ma pur poeta, figlio e intelligenza del tempo. Naturalmente il riconoscimento è reciproco: Pier Paolo, ricordandogli il “patto” poetico che da giovane Pound aveva rivolto a Whitman (omosessuale), cerca e ottiene il suo riconoscimento da parte di un ‘padre’ fascista (com’era il suo). Entrambi accomunati da una lotta senza quartiere al capitalismo omologante, una lotta pagata l’uno col confino, l’altro con la morte. Ma Pound aveva affermato: “se un uomo non e’ disposto a morire per la sua idea, o questa o lui non vale niente.”

Nicola Licciardello

25 giugno 2019

NOTE

[1] Mondadori 2018 (copertina BETTMANN/GETTY IMAGES 1958).

[2] Quando nel ’58 Pound viene liberato e i giornali italiani ne danno notizia, il più netto è Indro Montanelli sul “Corriere della sera”: “Delle opinioni politiche di un poeta possono aver paura solo gli sciocchi, e gli americani lo sono stati, non vedo perché imitarli, io spero che torni in Italia”. Pound dichiarerà: “Tutta l’America è un manicomio, io avuto la fortuna di trascorrerla in un manicomio vero” – dove ha potuto continuare a scrivere e incontrare amici. Il libro non menziona pero’ la recente assoluzione di CasaPound nell’usarne il nome, ne’ l’evento che nel 1968 ruppe il silenzio dell’anziano poeta, l’intervista a Pasolini.

[3] Il “sovrasenso apofatico di un linguaggio simbolico che riflette non una teologia negativa, ma una ricerca interiore e tutta umana del paradiso in terra” dice Roberta Capelli, condirettrice del Centro Ricerche Pound, ma poi aggiunge: “Pound e’ un cosmo”.

[4]Questa mente ha fatto la guerra/ essendo generoso/ questo cuore ha potuto osare/ i non-cuori possono meno// le non-menti devono temere/ perché ? Perché/ che sudiciume c’è qui// Le non-vite urlano// su colui sul quale hanno defecato/ hanno defecato encore/ lui ha riso e ha sputato/ questa vita potrebbe osare/ liberamente dare come da’ un amico/ non quelli che si ammazzano di lavoro/ non-individui per prestare// perché la speranza della speranza/ deve tubare e fare ‘booh’/ può darsi che si pavoneggi oppure strisci/ ingenerosi che/ scimmiottano abilmente scopi/ che non osano condividere/ gente così si fa un nome/ questo poeta ha fatto la guerra// per il quale il nulla e il tutto sono sole e luna/ giunga il bello o il brutto/ lui procede solo// osando osare/ per la gioia della gioia”/…/.

[5] Suo è il Meridiano Mondadori dei Cantos 1985.

[6] “/…/ Oche selvatiche planano sulle sirte/ nuvole accerchiano la finestrella/ distesa d’acqua; si diradano le oche d’autunno/ le cornacchie gracidano sulle lampare/ una luce percorre l’orizzonte a nord; dove i ragazzi pungono sassi per i gamberi./ nel 1700 giunsero i Tsung tra questi laghi di collina./ Una luce percorre l’orizzonte a sud/ Dovrebbe lo stato creando ricchezze indebitarsi ?/ Questa è infamia; è Gerione/ Questo canale ancora va a TenShi / anche se il vecchio re lo costruì per diletto/ KEI WUN RAN KEI/ KIU MAN MAN KEI/ JITSU GETSU KO KWA/ TAN FUKU TAN KEI/ Su col sole; al lavoro / tramonto; a riposo/ scava il pozzo e bevi l’acqua / zappa il campo e mangia il grano/ Il potere imperiale ? per noi cos’è ?// La quarta dimensione: la quiete./ E il potere delle belve”.

[7] Come nella famosa genealogia dantesca in cui Guido Guinizzelli addita in Arnaut Daniel chi in “versi d’amore e prose di romanzi/ soverchiò tutti” (Purg. XXVI, 112-119), Pound riprende l’espressione miglior fabbro nel cap. II de Lo spirito romanzo, ed Eliot gliela restituisce nella dedica alla Waste Land, da Pound opportunamente falcidiata.

[8] Il Canto così prosegue: “Deponi la tua vanità, dico deponila !/ Impara dal mondo verde quale posto ti spetta/ per gradi d’invenzione o di vera maestria/…/ Dòminati e gli altri ti sopporteranno/…/ avido di distruggere, avaro di carità/ deponi la tua vanità, dico deponila !/ Ma aver fatto invece di non fare/ questa non è vanità/aver bussato con discrezione/Perché un Blunt ti apra/ Aver colto dall’aria una tradizione viva/ O da un occhio fiero ed esperto l’indomita fiamma/ Questa non è vanità./ L’errore è tutto nel non fatto /nella diffidenza che tentenna.

DANTE TANTRICO E VEDICO

24 aprile 2019

DANTE TANTRICO E VEDICO

di Nicola Licciardello

 

kāmas tad aghre sam avartatādhi manaso retaḥ prathamaṃ yad āsīt

All’inizio era solo il desiderio divino, seme della mente cosmica

RG VEDA X 129, 3

 

Ivi è perfetta, matura e intera

ciascuna disianza; in quella sola

è ogni parte là ove sempre era,

perché non è in loco, e non s’impola

PAR XXII 65-68

 

  1. India in Dante e Dante in India

 

Non esiste un rapporto diretto fra Dante e l’India – la quale nell’universo dantesco era solo il confine orientale del mondo conosciuto – ma il Poeta qualcosa mostra di saperne: che vi fa un caldo da assetare (Pg XXVI, 20-21); che “non vi è chi ragioni di Cristo” (Pd XIX, 70-72), ma che l’eclisse di sole alla crocifissione sul Golgota si vide anche lì (Pd XXIX, 100-102); che vi sono alberi altissimi e fiumi fondamentali – l’Indo, sulle cui “parti calde” Alessandro vide cadere falde di fuoco (If XIV, 28-39), ma sulle cui rive gli abitanti onorano l’Albero Rovesciato (Pg XXXII, 40-42), e a oriente il Gange, che all’equinozio di primavera splende come il nuovo sole San Francesco (Pd XI, 50-54).

 

Nel 2011 Shyamalkumar Gangopadhyay ha tradotto la Commedia in bengali (Saytyah Academy), ma la storia della presenza di Dante in India è ben tracciata da Adolfo Cecilia e Ghan Shyam Singh[1], soprattutto in merito alla ricezione di Sri Aurobindo. Non è un caso che essa abbia inizio con la colonizzazione inglese e il sussulto nazionalista indiano pre-indipendenza, nell’ambiente raffinato e fervido di Calcutta. Si era colto in Dante il fortissimo impegno al riscatto morale dell’Italia, da una parte, e dall’altra il valore di una poesia assoluta, mondiale: “In India come in pochi altri paesi, l’interesse per la poesia di Dante si basa e si concentra quasi esclusivamente sui fattori e sugli elementi poetici e artistici, senza essere distratto e deviato da questioni teologiche, filosofiche e filologiche”. Ciò conforta il presente lavoro, che delega al sincretismo “cosmoteandrico” di Raimon Panikkar[2] il raffronto tra il cristianesimo di Dante e l’induismo – privilegiando invece le intuizioni di Sri Aurobindo.

 

  1. Tre regni ultramondani e tre gunas indiane. Tempo messianico vs. yuga hindū

 

Dei quattro sensi in cui fino al Medioevo era da leggere la Scrittura[3] (letterale, morale, allegorico, anagogico) è al livello simbolico-anagogico, cioè spirituale, che in Dante si sono visti aspetti iniziatici universali, quindi anche indiani. Qual è dunque la “dottrina nascosta” della Commedia ? La famosa terzina (al lettore) O voi ch’avete l’intelletti sani, / mirate la dottrina che s’asconde / sotto ‘l velame de li versi strani ? (eretici, If IX, 61-63) intrigò già Ugo Foscolo. Nascosta ai nemici politici da lui condannati nell’al di là ? O nascosta sempre (fin dai tempi della Vita Nova) perché indicibile eresia ?

L’esotérisme de Dante di René Guenon (1925, trad.it. Adelphi, Milano 2001), della “dottrina nascosta” svela gli elementi strutturali. Indica le simmetrie e ricorrenze numerologiche che percorrono e avvincono la Commedia (il trinitario 3, il 9 di Beatrice e dei cieli, il 5 e il 6 (“così come raia/ da l’un, se si conosce”, Pd XV 56-57), il ritmico 11 dell’endecasillabo, fino al DUX/LUX delle profezie. E fornisce tutte le possibili coordinate dell’esoterismo dantesco con rimandi a tradizioni, dottrine e confraternite iniziatiche di ogni luogo e tempo – dall’Ermetismo al Neopitagorismo, dalla Kabala ai Rosacroce, dai Templari alla Massoneria. Fa a tempo a citare il celebre La Escatotogia musulmana en la Divina Comedia di Miguel Asin Palacios, appena pubblicato a Madrid nel 1919 (tr.it.1997). Ma la metafisica della luce del Paradiso va comparata all’altezza mistica e linguistica di un Ibn’Arabi (Murcia 1165–Damasco 1240), l’autore delle Visioni Meccane[4] (al Futûhât al Makkíya), come fa Henry Corbin nel suo vertiginoso L’immaginazione creatrice[5]. Egli ricorda che anche Ibn ‘Arabi fu un Fedele d’amore, amò Nezam (“Armonia”), figlia di uno sheykh di Isfahan, vergine di purissima grazia e conversazione (come Beatrice per Dante), e continuò ad avere visioni eccezionali e a scriverne, in centinaia di opere, pur conducendo una vita da esule – dovuta non a odi politici ma proprio al suo misticismo sūfi, eretico per l’ortodossia sunnita. La fanciulla angelica (più avanti un Giovinetto androgino) gli apparirà durante le circumambulazioni notturne della Ka’aba, come greca, cristica Sofia – durissima (come Beatrice) nel rimproverargli le “perplessità”: “Chi sussiste ancora qui, che possa restare perplesso ? Che un fedele d’amore possa dire cose simili, è indegno di te.”

 

Guenon non mancò di riferire i tratti che la Commedia ha in comune con la metafisica indiana. Intanto la natura trinitaria del cosmo corrisponde nel sistema Samkya alle tre guṇas, qualità o ‘modi’ – di luce spirituale (sattva), energia o violenza (rajas), e oscurità-inerzia (tamas) – che in diversa percentuale informano l’uomo e la natura. Poi l‘ideale dantesco dell’Imperatore universale è lo stesso del cakravartin indù-buddhista (storicamente incarnato dall’imperatore Ashoka), la cui funzione è di far regnare la pace sarvabhaumika su tutta la terra. E infine il Grande Anno cosmico[6], ossia ciclico, di circa 26.000 anni – coincidente con la completa precessione degli equinozi. Nel XXVI del Paradiso infatti (incontro con Adamo) si definisce la data della creazione biblica: sono passati in tutto 6502 anni, o 65 secoli. Ora, il tempo escatologico vuole che ne passino altri 65 prima della fine del mondo, cioè Dante si auto-rappresenta nel kairos, punto o momento messianico del rovesciamento dei tempi, in cui il ciclo risale verso il luogo di massima precessione degli equinozi, ossia dopo 13.000 anni (esattamente 12.960), dal quale, con il ritorno al punto di partenza, si può dire inizi la ‘decreazione’. Il mezzo del cammin di nostra vita così coincide col centro della storia umana e, in accordo con le aspettative di rigenerazione del Giubileo 1300, è come se lui stesso ne fosse il nuovo Redentore.

Qui vi è un’analogia con la teoria degli yuga: dopo il punto più basso raggiunto nell’attuale kali yuga, il più breve di tutti, in cui l’umanità versa nel massimo degrado, il ciclo (con una transizione di 400 anni) ripercorre in senso inverso gli yuga positivi, ossia il dwapara (2), il treta (3), il krita o meglio satya (4) – i quali hanno durate sempre maggiori. I nomi derivano da un gioco di dadi vedico, e il tutto costituisce una inspirazione e una espirazione di Brahma. Questa versione è più logica e naturale di quelle new age che immaginano alla fine del kali yuga il ciclo ricominci di colpo dal satya, ossia dal momento più luminoso dell’umanità. Sri Yukteswar (Maestro di Yogananda), alla fine del secolo scorso rivide le durate rifacendosi all’antichissimo Manu, per il quale il satya dura 4800 anni, il treta 3600, il dwapara 2400, il kali 1200 – così la discesa, incluse due transizioni, dura 12.800 anni e la risalita altri 12.800[7]. Il ciclo completo di 25.600 è un periodo prossimo a quello della precessione degli equinozi (25.960).

 

  1. Morte e Rinascita – Commedia e Bhagavadgīta

 

Dante all’inizio della Commedia smarrisce la dritta via: le tre fiere che gl’impediscono il passo sono allegorie (“verità ascose sotto bella menzogna”) cioè indici, iceberg della catena delle ingiustizie umane. Per liberarsene interiormente ha bisogno di una Discesa agli Inferi, sotto la guida di Virgilio – sollecitato dalle 3 virtù teologali Maria, Lucia e Beatrice. Svenirà varie volte durante la settimana di viaggio, riconoscendo le personae delle passioni umane che sono anche sue. L’ordine che con la sua lingua deve fare in questa “vita attiva” prima di passare alla “vita contemplativa”[8] è un completo riavvolgimento, l’annullamento di ogni male o distrazione della vita ordinaria. Un processo di catabasi e anabasi narrano i Taittirīya Brāhmaṇa e la Kaṭha Upaniṣad: il giovane Naciketas è dal padre inviato a Yāma, dio della Morte e figlio del sole Vivasvat – lo attenderà tre notti a digiuno. Yāma rifiuta di parlargli dell’al di là, finché (in altre Upaniṣad) alla domanda del sole “Chi sei tu ?” egli non risponda “Io sono Te”. Nessun terrore, occorre ‘solo’ giungere alla conoscenza diretta dell’ātman[9].

Drammatico invece come per Dante è per Arjuna l’inizio della Bhagavadgīta: sul carro di battaglia nella pianura di Kurukshetra, dover combattere contro gli usurpatori cugini Panduidi gli provoca una crisi mortale. Qui è Kṛṣṇa avatar del dio Vishnu a guidare Arjuna. Per la centralità e popolarità delle due opere nelle rispettive culture, Commedia e Bhagavadgīta si pongono qui in un serrato confronto. Dalla morte non c’è scampo: sarebbe soltanto volgarmente fisica se non combattesse, ma Kṛṣṇa lo martella col suo Canto del Beato, che diventa iniziazione al karma-yoga e alla bhakti[10]. Sono 18 capitoli, ma si tratta di un attimo fuori dal tempo – le conchiglie degli eserciti hanno già squillato, le frecce sono incoccate – è come se tutto avvenisse solo nella (in)coscienza di Arjuna. In un versetto iniziale mormora: “Le mie membra vengono meno, secca è la bocca, un tremito mi scuote il corpo, mi si rizzano i capelli[11], e poco dopo la disperazione radicale: “Non aspiro alla vittoria o Kṛṣṇa, nemmeno al regno e ai piaceri, a che serve mai un regno o Govinda, a che i piaceri e la vita stessa ?[12]

Arjuna addita il collasso di una civiltà: “Quando una famiglia va in rovina periscono le sue leggi antichissime; e quando perisce la legge, l’ingiustizia sottomette l’intera famiglia[13]. Ma se regna l’ingiustizia si corrompono le donne, e con la corruzione delle donne la confusione delle caste – così conclude il ragionamento Arjuna. La distruzione dell’ordine castale getterebbe nel caos la società indiana – equivale a quello che per Dante è il male peggiore, la collusione fra potere politico e religioso. Dunque dichiara che non combatterà e s’accascia sul carro. La risposta di Kṛṣṇa proietta subito il discorso sull’Assoluto: la tua autocommiserazione non è degna di un saggio, il quale distingue l’effimero dall’eterno. I corpi cadono, ma non la loro vita, che si trasforma e mai può essere uccisa. Nulla è più onorevole per uno kśatrya (guerriero), che combattere secondo il proprio dovere. Lìberati anche dei tre guṇas, hai il privilegio dell’azione, ma non il diritto ai suoi frutti, e nemmeno il diritto alla non-azione (2, 47).

 

  1. La Fede nella Commedia e nella Gīta

 

Arriva subito qui l’insegnamento centrale della Gīta: agire senza desiderare il frutto dell’azione, agire come non-agendo, ripeterà più avanti (4,18). Questo è il vero karmayoga: liberarsi dagli opposti bene/male e concentrarsi sull’abilità nell’azione, yogaḥ karmasu kauśalam (2,50). Secondo il Samkya-yoga la vera conoscenza si ritrae dagli oggetti dei sensi, perché dall’attaccamento ad essi nasce la brama e dalla brama l’ira[14]. Ma allora, se la conoscenza è superiore all’azione, perché combattere ? Vi sono due vie, una per i contemplativi, l’altra per gli uomini d’azione, risponde Kṛṣṇa, ma poiché non è possibile vivere senza un minimo di operazioni, occorre il sacrificio, la rinuncia ai frutti “compiendo l’opera che ti è stata affidata”, niyataṃ kuru karma tvaṁ (3,8). Del resto, se il sacrificio dello yogi consiste nella concentrazione su un punto, in primis il respiro, prāṇayāmaparāyanāḥ (4,29), questo non basta senza la fede (śraddhā) di poter “giungere alla conoscenza e così alla pace”[15]. Le stesse parole Dante dice a Stazio, convertito alla fede cristiana: “La fede, sanza qual ben far non basta” (Pg XXII, 60).

La Gīta coniuga la “rinuncia ai frutti dell’azione” alla fede – su cui ora San Pietro esamina Dante. La fede è qui un fuoco spirituale: il Santo lo promuove e premia danzandogli intorno tre volte: “Fede è sustanza di cose sperate/ e argomento delle non parventi” (Pd XXIV, 64-65). La definizione piace, ma va completata: che cosa crede questa fede ? Dante crede in un solo Dio, eterno e immoto, che muove tutto il cielo con amore e disìo; crede in un’essenza tanto una e trina che consente di dire “sono” ed “è”: “Quest’è il principio, quest’è la favilla / che si dilata in fiamma poi vivace / e come stella in cielo in me scintilla” (145-147). L’eleganza del verso dantesco quasi cela la sua interna bellezza, la Verità che la Gīta condivide ed espande. La risposta non coincide con quelle di Kṛṣṇa, ma consente una corrispondenza il livello profondo, l’assoluto ‘ontologico’ che la fede è. Senza la fede non si leverebbe la fiamma di Agni, śraddhayāgniḥ samiddhyate (Ṛgveda X, 151,1), cioè lo slancio a elevarsi. Il Puruṣa stesso è fatto di sṛaddhā (śraddhamayo ‘yam puruṣo), e così “ognuno di noi è la sua fede” (yo yat śraddhaḥ sa eva saḥ) chiarirà la Gīta (17, 3) avvertendo: qualsiasi offerta, qualsiasi dono, qualsiasi atto d’ascesi compiuto senza fede è del tutto inefficace (17, 28).

Kṛṣṇa prosegue: “Coloro che hanno lo spirito pieno di Quello, che a Quello soltanto volgono l’anima, giungono a una condizione irreversibile” (5,17). La prosodia della Gīta sembra restituire quella Verità con ‘primitiva’ solennità: “Colui che è interiormente felice e pieno di luce, lo yogi divinamente colmo, attinge una beatitudine divina, śāntiṁ nirvānaparamāṁ (6,15). Dante dice: “colui che più s’indìa” (Pd IV, 28): Mosé, Samuele, i due Giovanni, Maria. E così prosegue Kṛṣṇa:Come una lampada al riparo dal vento, così è lo yogi che ha sottomesso il suo spirito, realizzando l’unione col Sé”, e “vedendo il Sé attraverso il sé, gode del Sé[16]. Ma Arjuna non è convinto, gli sembra che sia come tentare di controllare il vento…

 

Il canto successivo del Paradiso (XXV) si apre con una scena di commovente confessione-profezia: “Se mai continga che ‘l poema sacro / al quale ha posto mano e cielo e terra, / sì che m’ha fatto per più anni macro,/ vinca la crudeltà che fuor mi serra / del bello ovile ov’io dormi’ agnello,/ nimico ai lupi che li danno guerra;/ con altra voce omai, con altro vello / ritornerò poeta, e in sul fonte / del mio battesmo prenderò ‘l cappello[17]. Dopo tanta ascesi (tapas), Dante pensa ancora alla bella Firenze dove avidi e traditori gli davano guerra: è così improbabile che vi sia riammesso, ma “se mai” sarà per via della Commedia, non da politico, ma al di sopra delle parti, con voce e fama di Poeta. Bruciata già è l’identità terrena, la speranza rimasta è l’(auto)profezia della successiva e personale definizione: “Spene, diss’io, è uno attender certo/ de la gloria futura, il qual produce/ grazia divina e precedente merto[18].

Kṛṣṇa mai suggerisce ad Arjuna di ‘sperare’ che lo yoga funzioni. Va da sé che funziona. Da tempo immemorabile e tuttora lo provano ṛṣi e asceti in ottima salute. Ma Arjuna non è sicuro che sia il sistema giusto per lui. Allora Kṛṣṇa gli parla in prima persona: puoi prendere rifugio in me, perché io sono l’origine di ogni cosa, sono nelle acque il sapore, nella luna e nel sole la luce, sono la sillaba sacra aum, il suono dell’etere, la virilità negli uomini, “nella terra il profumo, nel fuoco lo splendore, in ogni essere la vita e negli asceti la penitenza”[19], Io non sono in esse, ma esse sono in me[20]. E “qualsiasi entità un devoto desideri con fede venerare, io rendo la sua fede salda e immutabile[21]: ecco la tipica libertà di culto indiana – da cui la possibilità di milioni di forme divine – e come la Gīta passa dal karma-yoga al bhakti-yoga, la devozione.

 

Arjuna accetterà le proclamazioni del dio solo nel decimo capitolo, e in seguito alla visione di “mille soli” che illuminano ogni parte dell’universo, distribuite nel corpo del dio, vi si prosterna chiedendogli di sostenerlo “come un padre il figlio, come l’amico l’amico, come l’amante l’amata” (11,44). Più mistico è Dante al cospetto del Cristo: “e per la viva luce trasparea/ la lucente sustanza tanto chiara/ nel viso mio, che non la sostenea” (Pd XXIII, 10-11), e prima con la carità collettiva dei beati, nei bellissimi versi: “O dolce amor che di riso t’ammanti/ quanto parevi ardente in que’ flailli/ ch’avieno spirto sol di pensier santi !” (Pd XX, 13-15). Il capitolo successivo della Gīta menziona la gioia che la felicità di tutti gli esseri elargisce, sarvabhūtahite ratāḥ (12,4), ma non si sofferma su questo concetto, che sarà fondativo per il Buddhismo soprattutto tibetano[22].

 

All’archetipo dell’Albero Rovesciato, le radici in alto e i rami in basso, l’aśvattha (pipal o ficus religiosa) la Gita dedica il cap 15. Le foglie sono i Veda, che lo rinnovano. Ma col non-attaccamento bisogna troncare le sue radici, e cercare quella strada dalla quale più non tornano quelli che vi sono arrivati (“su per quella scala/ ‘u sanza risalir nessun discende” (Pd X, 86-87). In realtà è l’Albero della Vita, quello della Persona originaria, il Signore dell’universo, il quale nutre le specie viventi attraverso il “soma, nettare gustoso” (15,13) – ma noi lo vediamo rovesciato come in una pozza d’acqua, e di questo riflesso occorre tagliare le radici illusorie. L’allegoria di quest’Albero della Vita che ostacola l’ascesi è ben presente in Dante: “un alber che trovammo in mezza strada / con pomi a odorar soavi e buoni / e come abete in alto si dirada / di ramo in ramo, così quello in giuso / cred’io, perché persona su non vada (Pg XXII, 131-135). E’ l’albero cui invano tendono le mani i golosi che, espiando, non possono più coglierne i frutti (le retribuzioni karmiche). Poco più su, quando insieme a Stazio e Virgilio giunge “al grande arbore che tanti prieghi e lagrime rifiuta”, la Vergine Maria ordina che vadano ancora più su, dov’è l’Albero della Conoscenza, “morso da Eva”[23]. Con perfetta intuizione poetica, Dante riunifica quest’Albero della Conoscenza con quello della Vita (Pg XXXII 38-60): esso rinverdisce alla presenza di Beatrice e del viator, come se il pentimento di Dante e il perdono di Beatrice avessero simultaneamente riattivato l’innocenza del Paradiso terrestre.

 

  1. Devozione e amicizia divina nella Gīta e nella Commedia

 

La conclusione della Gīta (cap.18) insiste sulla direzione non conoscitiva (jñana) ma karmayogica, giusta al caso del re-guerriero Arjuna. Comunque la rinunzia ai frutti dell’azione non significa abbandonare il sacrificio, il dono, l’ascesi dei saggi[24]. Ma è la stessa azione umana (corpo, mente e parola) a non appartenere all’uomo soltanto: oltre all’agente e ai suoi tre modi, vi è un quinto principio imponderabile, un daivam misterioso (la Fortuna, il Fato, i karma passati, il mistero imperscrutabile della Provvidenza in Pd XX, 130-148 ?) che interviene fra il nostro volere e i suoi risultati. Se anche Arjuna decidesse di non combattere, una forza forse lo costringerebbe, è vano considerarsi l’unico autore del destino, è proprio questo che crea smarrimento, yat tat tāmasam ucyate (18,25). Le azioni dovute vanno eseguite senza emozioni positive o negative, rinunciando al proprio io[25]. Tutte le qualità vengono direttamente dalla propria natura, ma c’è un elemento trasversale: chiunque provi gioia nel proprio lavoro raggiunge la perfezione.[26] E ancor più, una sorta di ‘autonomia’: “Migliore è la propria legge, (anche se) sprovvista delle qualità perfette, che non l’altrui legge ben praticata. Non ha macchia colui che compie l’azione dettatagli dalla natura” (18, 47).

Lo naturale è sempre sanza errore” (Pg XVII, 94) dice Virgilio, ma l’amore d’animo, o d’elezione “puote errar per malo obietto / o per troppo o per poco di vigore”, però (ancora in simmetria con il dettame della Gīta) anche qui si dice che null’altro da’ vera felicità come l’amor di Dio. Nel canto successivo, Dante chiede un approfondimento, cioè se siamo responsabili delle scelte in amore. Virgilio, rinviando a Beatrice una spiegazione più teologica del libero arbitrio, risponde che l’intelletto non conosce da dove vengono le pulsioni, ma che “Innata v’è la virtù che consiglia / e de l’assenso de’ tener la soglia”… “Coloro che ragionando andaro al fondo / s’accorser d’esta innata libertate”.

 

Anche per Dante le virtù del bene operare sulla terra sono le cardinali prudenza, giustizia, fortezza e temperanza. La Morale è la bellezza della Filosofia (Conv. IV, 15). E naturalmente, in entrambi i sistemi, quello scolastico e il Samkya, l’etica consegue alla metafisica[27]. Però vi è qualcosa di ancora più consonante col Dante cristiano nel modo in cui la Gīta conclude. Una cosa sola col Brahman diventa chi rinuncia a tutto, dice Kṛṣṇa (18, 51-53), ma con la devozione suprema soltanto mi conosce realmente, perché “entra in me”, viśate tadanantaram (18,55). Se compirai ogni cosa prendendo rifugio in me, otterrai la dimora[28]; il Signore ha dimora nel cuore di tutti gli esseri, volgendoli tutti intorno in divina geometria[29] (“E Beatrice disse: <Ecco le schiere/ del triunfo di Cristo e tutto ‘l frutto/ ricolto del girar di queste spere!>, Pd XXIII).

E infine la rivelazione ‘cristiana’ della Gita: “dopo questo segreto dei segreti, ti dirò la parola più segreta di tutte: tu sei da me intensamente amato” (18, 64). Già nel ṚgVeda, Vāc (la Parola) affermava: “Spontaneamente rivelo ciò che uomini e dei cercano / Colui che amo rendo potente sacerdote, saggio e veggente[30]. Kṛṣṇa conclude: “Siimi devoto dunque, rendimi onore, perché mi sei caro. Oltre ogni dovere, vieni a me come unico asilo, non ti affliggere, io ti libererò da ogni male[31]. Una preghiera vicina al Pater Noster è qui profferita dal dio Kṛṣṇa. Arjuna dichiara dissolto ogni smarrimento e dubbio, pertanto combatterà (e certo vincerà: il futuro della nazione indiana è assicurato – Bhārata è ancor oggi il partito al potere in India).

 

Si può dire che la devozione di Dante per Dio sia altrettale da meritare questa “amicizia” ? Non solo attraverso Cristo e Francesco – del quale Pd XI narra la storia del suo matrimonio con Madonna Povertà, rimasta ad attendere dodici secoli – ma Dio creatore e motore immobile, centro d’Amore attorno cui tutto ruota eternamente ? Certo, oltre ogni Rivelazione cristiana, incluso il culto della Vergine Madre, c’è in Dante un’idea ‘vedica’ del divino quale Assoluta Gioia-di-Sé: “Lo sommo ben, che solo esso a sé piace” (Pg XXVIII, 91; “quieto e pacifico è lo luogo di quella somma Deitade, che sola [sé] compiutamente vede” (Conv.II, 4). Ma Dante non è un mistico qualsiasi, è un Poeta. Alla sua alta ambizione non basterebbe riferire l’estasi di Pd XXXIII. La poesia ha bisogno della Bellezza, visibile – per condurre a quella Invisibile. Così Dante è aristotelico nella fede, ma platonico nell’Opera. E’ questa forse la sua costante eresia ?

 

  1. Stilnovo e Tantra indo-tibetano

 

Ed ecco il passaggio, la formidabile re-invenzione stilnovista: la mia donna come via a Dio. La devozione (bhakti) di Dante, fin dalla lontanissima Vita Nova, è per la mia donna Beatrice – vera Śakti o Potenza del poeta-asceta, che col suo tapas mira alla visione di Dio (nello śivaismo si cerca di diventare il dio, Śiva). Ella lo “mira ne la faccia”, sì da aprirgli l’intero mondo invisibile, così complesso e ordinato da dover esser scritto, rivelato all’umanità come un tempo fece la Bibbia. L’ultimo sonetto della Vita Nova col suo commento (XLII) è uno scrigno intenso che contiene la Commedia in nuce: lì, “se piacere sarà di colui a cui tutte le cose vivono, che la mia vita duri per alquanti anni, io spero di dicer di lei quello che mai non fue detto d’alcuna.”

 

E intanto, come nelle scene finali del Purgatorio una donna difficilmente sarà mai effigiata. Sul Carro (la Chiesa trionfante) “ammiraglio” e “proterva” accusatrice: “Tanto giù cadde, che tutti argomenti/ a la salute sua eran già corti/ fuor che mostrargli le perdute genti” (Pg XXX 136-138). E poi persino Donna ‘gelosa’: “Mai non t’appresentò natura o arte/ piacer, quanto le belle membra in ch’io/ rinchiusa fui ( …) e se ‘l sommo piacer sì ti fallìo/ per la mia morte, qual cosa mortale / dovea poi trarre te nel suo disìo ? (…) Non ti dovea gravar le penne in giuso/ ad aspettar più colpo, o pargoletta/ o altra novità con sì breve uso” (XXXI, 49-60). Il pianto dell’accusato attesta la speciale missione di questa Donna: umiliare l’amato tanto da farlo pentire e quindi redimere, rendendolo “puro e disposto a salire alle stelle”. La scena di per sé non è tanto una conferma della umanità o realtà femminile di Beatrice (come vorrebbero dei commentatori), quanto della qualità unica di Lei e cioè del tipo d’amore ultraterreno cui Dante è tenuto se vuole ottenere il sommo piacer. Si tratta di un dispositivo tantrico.

 

Il neotantrico Kamalakar Mishra spiega il tantra[32] in parole semplici. Intanto il rito kaula (uno dei sei a disposizione del tantrika per giungere a Śiva, ossia all’energia universale) è un culto della vergine (kumaripuja) in cui la donna non è vista come un essere umano, ma come la Dea (Śakti) incarnata. Poi occorre ammettere che “la potenza dell’intero universo (kundalini-śakti) è nel corpo vivente, ma non è limitata alla sola espressione sessuale; è in generale l’energia del piacere (ananda-śakti), che si esprime in ogni forma di attività gioiosa” (p.407).

Trattare la propria (o il proprio) partner come una Dea (o come un Dio) è un’esperienza che gli amanti fanno da sempre – e continuano anche nella società dei consumi, ma inconsciamente ostacolati, perché è un simbolo psichico represso dalla cultura scientifica (da quando “Dio è morto” etc). Il tantra semplicemente recupera questo livello – prosegue Mishra, in termini più innocentemente ‘nuziali’ che lo Stilnovo. Il riserbo e il linguaggio cifrato non sono dovuti a una rimozione esterna (come le condanne al rogo per i Fedeli d’Amore), ma alla riservatezza funzionale del rito stesso, alla tecnica, che protegge da chi non è pronto e lo distorcerebbe.

Allora: i desideri sono energia che non può mai venir distrutta, può invece essere indirizzata creativamente. Occorre un sentimento di amore verso il partner sessuale, e verso l’atto sessuale stesso (p.411). Nel rito tantrico l’unione (maithuna) non si compie per il godimento (bhoga) – anche se esso non si nega, anzi diviene più intenso – bensì come offerta alla divinità (incarnata nel partner), e quindi come atto d’amore di qualità unitiva spirituale. Nella divinità del partner si ama il mondo intero, e ci si comporta di conseguenza, si ha il “cor gentile” verso tutti – la moralità è quasi un effetto collaterale: esser degni del partner, dell’umanità tutta, e del divino in quanto non si offende (l’ecologia del) l’universo.

 

Perciò gli Stilnovisti e Dante erano dei tantrika. O meglio, immaginavano di esserlo, cercavano di indovinarne le tecniche. In primo luogo scrivendole, ovvero “ragionando d’amore”: cantando le lodi dell’amata, sognando le modalità dell’incontro, dichiarando gli effetti che ha nel cuore: “Oh nobilissimo ed eccellentissimo cuore, che ne la sposa de lo Imperadore del cielo s’intende, e non solamente sposa, ma suora e figlia dilettissima !” (Conv. III,12). Questa sposa, suora e figlia non è la Natura, come si potrebbe pensare, ma nel linguaggio cifrato dei Fedeli d’Amore è la Filosofia ! Il dispositivo archetipico del poeta[33] è tale fin dal tempo, nel mondo ebraico, del Cantico dei Cantici di re Salomone, modello (pur travisato in senso solo simbolico) per la cultura europea medievale. E’ un caso di sincronicità che le sculture erotiche dei famosi templi di Khajuraho[34] nascono nello stesso periodo della poesia stilnovista (pur senza un contatto). Gli influssi, gli accenti, a volte l’intenzione cambiano – nel mondo classico greco-latino, dell’amore si cantava l’irresistibile mania di eros – ma sempre la poesia nasce da un ‘ascolto’ degli dei e da una loro lode. L’intero ṚgVeda non è che un offrirsi della grande dea Vāc, Parola, mantra che nomina forze divine, cosmiche e psichiche: “La dea Parola svela la sua forma più bella, come una donna affettuosa si spoglia davanti a suo marito” (ṚgVeda X, 81, 4). La poesia sufi nomina l’Unico Amato, e questa Parola araba filtra in occidente attraverso le Crociate e giunge in Spagna, quindi Provenza, Sicilia e Toscana fino a Dante.

 

In due incontri del Purgatorio Dante precisa questa poetica. Quando Casella intona la canzone per una “donna gentile” (che è Filosofia nel III del Convivio): “<Amor che nella mente mi ragiona> /cominciò elli allor sì dolcemente,/ che la dolcezza ancor dentro mi suona” (Pg II, 112-114), ne ribadisce l’effetto risanante (“l’amoroso canto/ che mi solea quetar tutte mie doglie”). E quando Forese Donati gli nomina la prima canzone in lode di Beatrice (Vita Nova XIX) “<Donne ch’avete intelletto d’amore>/ e io a lui: <I’ mi son un che, quando/ Amor mi spira, noto, e a quel modo/ ch’ei ditta dentro, vo significando” (Pg XXIII, 51-54) esprime nel modo più incisivo la poetica stilnovista del Dittatore Amore.

 

Nello Stilnovo l’amore è ‘adultero’, non legato a vincoli coniugali, ma vi è di più: fino al Petrarca, il quale nei Trionfi (Morte di Laura) scrive: “quasi un dolce dormir ne’ suoi belli occhi / sendo lo spirto già da lei diviso / era quel che morir chiaman gli sciocchi”, la morte iniziatica è anche dell’amata, ‘necessaria’ nella Vita Nova di Dante. “Di necessitade convene che la gentilissima Beatrice alcuna volta si muoia” (XXIII), in uno fra i più apocalittici e ‘sciamanici’ passi dell’opera, dove nel sanguigno incubo notturno a morire è anche il poeta quale doppio della sua donna. E’ un laya-yoga (dissoluzione), non il nesso amore-morte: come il Cristo dei Vangeli che, appena risorto, anagogicamente scompare, così il vecchio corpo dell’amata scompare per fissarsi invece nella visione dell’anima, dove sarà immortale, cantabile per sempre.

 

Lama Yesce ha un piglio gioioso e pragmatico nel presentare il tantra tibetano[35]: “Dobbiamo chiederci quanto piacere dei sensi possiamo sperimentare senza venirne travolti”. Un’algebra quasi epicurea. Ma qui “lo scopo è unificare la nostra esperienza del piacere con la natura della luce”, nell’icona o “metafora” sessuale tipica, l’unione fra divinità maschile (energia della beatitudine) e divinità femminile (energia della penetrativa saggezza non-duale, ṣunyata o vacuità). La metafora percorre i livelli secondo il grado di piacere che il praticante sa trasformare. “Il primo livello è di colui che sa trasformare l’energia di beatitudine che sorge al semplice osservare un partner attraente”: lo viso della Donna nei poeti provenzali e stilnovisti. Al secondo livello, viene trasformata l’energia provocata dallo scambiarsi sorrisi o dal ridere: lo disiato riso negli stessi poeti. Al terzo livello l’energia usata è quella che deriva dal tenersi le mani o dall’abbraccio. Questo manca nella poesia stilnovista, che Lama Yesce taccia di sublimazione: il desiderio distorce la visione, che diventa irreale proiezione di perfezione e permanenza (mentre in verità cambia a ogni istante), “trasformando l’oggetto in idolo” (pp. 36-39).

La differenza decisiva con lo Stilnovo è infatti nello sfondo di vacuità, la quale distrugge le negatività che oscurano la mente, incluso il desiderio da cui essa ha avuto origine”. Nel supremo yoga tantra infatti il praticante possiede l’abilità di dirigere nel sentiero spirituale l’energia che sorge dal desiderio dell’unione sessuale. Come ? Riprende la metafora erotica: “Immaginate di avere di fronte una persona per voi estremamente attraente. La sola vista vi fa sorgere una grande energia. Forse vi viene voglia di muovervi verso di lei e afferrarla. Ora immaginate che questa persona improvvisamente si dissolva in luce, radiante e trasparente come un arcobaleno. Automaticamente si dissolvono anche le opprimenti sensazioni di desiderio e possesso, e al loro posto sorge qualcosa di più leggero e positivo. Avete ancora un certo rapporto con questo oggetto meraviglioso, ma esso è cambiato: sperimentate qualcosa di più spazioso e universale, un’esperienza luminosa, estatica, molto intensa” (p.153). Di fatto è un esercizio, una pratica: trasformare la reazione a quella scena da parte di una mente ordinaria (forse stupore e inseguimento dell’immagine) nel suo versante meraviglia e gratitudine all’impossibile, allo s-vanire, alla bellezza che ci dis-impegna.

Dunque: la poesia stilnovista ‘resiste’ nell’energia dell’eros inappagato, ne parla o canta proprio l’impossibile, l’inappagabile (mentre la poesia zen tematizza la bellezza dello svanire); il tantra buddhista mira alla dissoluzione dell’eros nella gioia della luce. Entrambi hanno bisogno di icone di perfezione divina. Ma invece dell’ingorgo energetico del poeta stilnovista, che immagina la divinità fuori di sé, il buddhista tantrico proietta se stesso come divinità.

 

 

 

 

  1. Dante tantrico: “Noi siam qui ninfe e nel ciel siamo stelle

 

Nel canto XXVIII del Purgatorio, Dante giunge all’Eden e incontra Matelda che raccoglie fiori nella veste (come Proserpina nelle Metamorfosi di Ovidio), nei successivi trova le Grazie e finalmente avrà lo scontro/incontro con Beatrice. Si è visto il trattamento che gli riserva colei per cui “d’antico amor sentì la gran potenza” (Pg XXX, 39). Invece gli idromassaggi della “bella donna” Matelda (fino all’ultimo non se ne dirà il nome, ma Bella si chiamava la mamma di Dante) ritemprano il viator, che torna ragazzino. Il paradiso terrestre è qui la Natura pura, riverginata per la felicità dell’uomo. Ma dura solo un attimo, è la soglia per il trascendente Paradiso. Serve a dimenticare il male e ricordare solo il bene (i fiumi Leté ed Eunoè). Ora tutte le Donne di Dante qui ‘fanno sistema’: Matelda dolce madre Natura, Beatrice amore-Sapienza divina, Lucia misericordia e giustizia, Maria soccorso e carità. Le tre Donne che all’inizio della Commedia si precipitano a soccorrere l’asceta smarrito sono le Grazie-Virtù teologali, cui si aggiungono le quattro virtù cardinali: danzando cantano “Noi siam qui ninfe e nel ciel siamo stelle” (Pg XXXI, 106). Le creature visibili dei boschi, della natura Naturata, cor-rispondono a stelle in cielo e a Virtù ben reali. Le sette insieme formano l’Orsa Maggiore, appunto il Carro, e con l’Orsa Minore e la Stella Polare (Beatrice-Cristo) indicano il nord, divino termine del viaggio. Sulla terra, abbiamo bisogno delle ninfe per immaginare la danza delle stelle. Esse sono qui il ‘riflesso’ di quelle. Se questo stupendo verso può condensare il tantra di Dante è perché già all’inizio della Vita Nova (dove alcune “donne gentili” saranno “schermo alla gentilissima”) Dante sembra ben individuare quattro dei sette cakra della tradizione esoterica indo-tibetana.

 

“Quando a li miei occhi apparve prima la gloriosa donna de la mia mente”, ossia quando Dante e Beatrice hanno solo 9 anni (corsivi nostri): “lo spirito de la vita, lo quale dimora ne la secretissima camera de lo cuore, [cuore, centro 1] cominciò a tremare…e dicea queste parole: <Ecce deus fortior me…>”, Amore un dio più forte di me. Mentre “lo spirito animale, lo quale dimora ne l’alta camera ne la quale tutti gli spiriti sensitivi portano le loro percezioni [cervello, centro 2] si cominciò a meravigliare molto, e parlando spezialmente a li spiriti del viso [Terzo Occhio, centro 3], sì disse: apparuit jam beatitudo vestra”. Si può così ricostruire il processo: il centro della mente (“l’alta camera” etc) – nella cui immaginazione attiva, produttrice dei phantàsmata necessari al pensiero, si è appena fissata “la gloriosa” Beatrice – interpreta l’evento d’Amore occorso al cuore del (vergine) fanciullo come una questione di vita e di morte (lo dimostra, nel capitolo successivo, la “visione” del cuore che Amore costringe la Donna a mangiare), e annuncia all’Intuizione (dagli occhi spiritualmente parte un raggio visivo[36]) che d’ora in poi la felicità consisterà solo nella vista (progressivamente interiore) di Beatrice. La rassegna dantesca termina descrivendo come reagisce il centro “naturale”, “lo quale dimora in quella parte ove si ministra lo nutrimento nostro [emozioni, sotto il diaframma, 4]: cominciò a piangere, e piangendo dicea <Heu miser, quia frequenter ero impeditus deinceps>”: per come d’ora in poi sovente sarà impedito.

In questo modo si spiega l’anoressia dell’innamorato: l’istinto naturale viene ‘bloccato’, si fa di pietra[37] (che stilla). Perché d’ora in poi tutta l’energia (o libido) si convoglia nella facoltà d’immaginazione d’Amore – in cui, quanto più la visione si affina e potenzia, tanto più colma di gioia il cuore. Ogni altra immagine, ogni altra donna (non importa se “reale” o meno, l’eros è dell’immagine, con Lei vogliamo unirci), che sia “donna pietosa” o filo-sofia (Conv.II,1), viene accolta ma superata in funzione di Quella – è di Lei “schermo”: da fuori apparente oggetto d’attenzione, ma per lui segreto appiglio a un nuovo salto immaginativo – il che sul piano corporeo genera un nuovo impietrirsi, un irrigidimento doloroso nel “naturale”[38].

 

Insomma, tramite l’Amata, Dante è giunto da subito ai cakra più alti: Parola (viśuddha), Immaginazione (ājñā, Terzo Occhio o Horus), Unità nell’estasi di luce cosmica (sahasrāra). E il suo linguaggio è quasi sovrapponibile a quello tantrico buddhista: la verginità di Matelda (“riso e dolce gioco”) è gravida della suprema, celeste “chiara vista” (Bodhicitta) del “sommo piacer” (sukhāvatī). Nel Letè la “bella donna” letteralmente sommerge e abbraccia Dante – proprio come un’Avalokiteśvara della compassione abbraccia il discepolo nel tantra tibetano. Qui infatti a ogni cakra corrisponde e sovrintende un Buddha, o una coppia divina abbracciata: “il corpo del dio (discepolo) giace in mezzo al diamante delle dee”. Non si tratta però di segreti sessuali[39], ma di quelli della “mente d’illuminazione” (Bodhicitta), intrisa di “quattro amanti”: “comprensione”, “realizzazione”, “non abbandonare (la presa)”, “sapere (ciò che è da) ottenere”. Un ulteriore segreto è che la Bodhicitta stessa contiene un’amante, cioè la Grande Voluttà o comprensione del Vajrasattva, “lampo” del seme-diamante – fuori da cui il discepolo non si lascerà distrarre, fermo nel Pensiero dell’Illuminazione. A livelli via via più sottili, seguono altri segreti, come l’ “embrione” del Tathāgata, ossia la potenza della Buddhità, o “gravidanza dell’intuizione” – la meta essendo la Beatitudine Ininterrotta, il “sapore” (rasa) della realtà oggettiva e soggettiva fuse insieme.

 

  1. Beatrice e Mirabai

 

Citare i versi d’amore per quella che ‘mparadisa la mia mente farebbe un libro a sé, i versi per Lei innervano la struttura stessa del Paradiso. Basteranno qui degli esempi di rara qualità poetica.

li occhi pieni/ di faville d’amor così divini” (IV);

e cominciò, raggiandomi d’un riso/ tal, che nel foco faria l’om felice” (VII);

Vincendo me col lume d’un sorriso/ ella mi disse: <Volgiti e ascolta;/ che non pur ne’ miei occhi è paradiso>” (XVIII);

Come t’avrebbe trasmutato il canto/ e io ridendo, mo pensar lo puoi” (XXII);

Ciò ch’io vedeva mi sembiava un riso/ de l’universo; “incominciò, ridendo tanto lieta, /che Dio parea nel suo volto gioire” (XXVII).

 

Il nome di Beatrice permane anche dopo la sua scomparsa alla vista, nel XXXI canto, in cui il Poeta la cerca e non la trova più, e allora quasi prefigurando quella che San Bernardo reciterà per la Vergine Maria, ne intona l’ultima lauda: “O Donna, in cui la mia speranza vige (…) tu m’hai di servo tratto a libertate (…)”, “Così orai; e quella, sì lontana, come parea, sorrise e riguardommi”. Dante così ribadisce che l’Opera è compiuta da Maschile e Femminile insieme.

Attraverso gli occhi di una donna, gli occhi e il sorriso: “due luoghi che si possono appellare balconi de la donna che nel dificio abita, cioè l’anima” (Conv. III,8), Dante è riuscito a coronare la Visione dell’Anima.

 

Nella sterminata poesia mistica indiana, da Tulsidas a Kabir, da Vidyapati a Nammalvar (alcuni venerati come santi), la devozione (bhakti) è per un maschile archetipo Divino, quasi sempre Kṛṣṇa[40] amato dalle sue pastorelle gopi. La nobile rajastana Mīrābāī se ne innamora all’età di 5 anni, lo canterà e danzerà, ribelle al sati e alle caste, fino a diventare asceta itinerante e a dissolversi in Lui a Vrindavan – sfuggendo ad Akbar il Grande:

 

Ho parlato con Te, / scuro Dio che solleva il monte/ ho parlato di questo amore antico/ nascita dopo nascita./ Non andare Giridhara,/ permettimi di offrire in sacrificio/ me stessa, oh Amato, al tuo luminoso volto./ Vieni qui, nel giardino,/ Signore dalla pelle scura./ Le donne intonano i canti nuziali;/ i miei occhi hanno preparato un altare di perle,/ ed eccoti il mio sacrificio:/ il corpo e l’anima di Mira,/ la serva che si annoda ai tuoi piedi,/ vita dopo vita,/ un vergine campo che tu possa mietere.” (Mīrābāī, a cura di Maria Luisa Sangalli, Red, Milano 2009).

 

  1. Sri Aurobindo e Dante vedico

 

Sul piano storico, l’immaginazione di Dante ha rifondato l’immaginario amoroso e religioso di un’intera civiltà – quella cattolica italiana, e umanistica europea (che si chiama “universale”). Fissando la lingua italiana che tuttora in gran parte parliamo, ha conferito il senso più alto e potente alla parola poesia perché in essa ha ri-creato una comunità intellettuale e spirituale, adempiendo la missione di cui si sentiva investito: una nuova Scrittura, una Bibbia in “volgare”. Il suo aldilà, per chi vi ha creduto o vi crede, è ineludibile: la sua architettura mandalica, i suoi valori e gerarchie, il suo Dio, i suoi personaggi, le figure di peccato e virtù – gli orribili contrappassi infernali e i paradisiaci premi in musica, danza, luce e amore sono momenti di una grandiosa trasfigurazione (anche se non trans-formazione) dell’umanità. Già per questo, Dante è un kavi, e la lingua della Commedia è vedica, in quanto inizia e fonda una civiltà – anche se completamente diversa da quella indiana.

 

La cultura indiana, accumulativa e inclusiva, barocca e aperta, ben ospita il verbo di Dante – così come la sua spiritualità accoglie il messaggio di Cristo. Le prime ricezioni del poema in India si devono a Lord Macaulay, titolare per l’istruzione della East India Company a Calcutta, e cultore di Dante – in un saggio (1825) lo paragona a Milton. Il poeta Michael Madhûsudan Datta (1824-1873) studia letteratura italiana in originale e scrive il poema epico Meghanad-Badh ispirandosi a Dante (e il sonetto Dante, poeta dei poeti). Quindi Hemachandra Vanyopadhyaya dichiara il suo Chhayamayi poema di riflessione filosofica ispirato alla Commedia, senza però accettare l’eternità della dannazione infernale. Laurence Binyon (1869-1943), uno dei migliori traduttori di Dante in inglese, è compagno di scuola di Manmohan Gosh, fratello di Sri Aurobindo (1872-1950), e naturalmente anche Rabindranath Tagore (1861-1941), primo Nobel di Letteratura (1913), è un ammiratore di Dante. Ma nessuno ha fatto uno studio della poesia universale come Sri Aurobindo.

Dai 7 ai 20 anni educato in Inghilterra – a Cambridge vinceva tutte le gare di versificazione latina e greca – gli ci vorranno altri tredici anni per impadronirsi della cultura classica indiana. Nei periodici da lui diretti a Calcutta (“Karmayogin”, “Dharma”, “Vandé Mataram”), e con le azioni di boicottaggio ai prodotti britannici, andava formandosi l’idea di un’inevitabile indipendenza dell’India, dormiente energia di un retaggio spirituale unico, capace di avviare una nuova umanità planetaria: “Giacché non sarete voi ad agire, ma qualcosa che è dentro di voi, l’Imperituro che nessuna polizia potrà arrestare” (The Present Situation, gennaio 1908). Arrestato nel 1907, passerà oltre un anno in carcere, dove avrà l’illuminazione dello yoga integrale (karma, jnana, bhakti, ma anche tantra). Nel 1910, seguendo un adesh (comando interiore), s’imbarca per Pondicherry, giusto in tempo per non essere di nuovo arrestato, e fino al ’26 svolgerà attività pubblicistica (il mensile “Arya”), dopodiché comunicherà solo per iscritto dalla sua stanza nell’ashram. Nel 1914 lo visita Mira Fassa (la futura Mère), straordinaria medium francese, che lo riconosce come il suo Kṛṣṇa: dal 1920 gli starà accanto fino alla fine (1950). Nel ritiro scrive le sue poderose opere, che l’ashram ha pubblicato in 30 volumi nel 1972. Nel 1940 rompe il silenzio pubblico sollecitando l’adesione dell’India all’alleanza contro il nazismo. Il giorno dell’Indipendenza dell’India, 15 agosto 1947, è il suo 75° compleanno (“Considero questa coincidenza il sigillo della Forza divina che guida i miei passi…”). Nel 1950 è candidato al Nobel per la Pace, ma “decide di lasciare il corpo” (l’anno dopo il Nobel viene proposto per la Mère, che rifiuta).

 

Specialmente in The Future Poetry, ma anche altrove sono sparse le sue note su Dante, inscritte in una ricapitolazione della sapienza poetica mondiale, da cui egli indica le perle che mostrino l’esistenza di una “Supermente” – un livello di coscienza yogica che l’umanità del prossimo futuro riuscirebbe a incarnare, fino al livello cellulare, giungendo così all’immortalità fisica. Sente dominare in Dante il tono epico, e vi riconosce una “concentrata forza espressiva”, che lo pone all’altezza di Omero, Eschilo, Virgilio, Kālidāsa, Vālmīki, Shakespeare e Goethe. Con una speciale qualità di “veggente, che si esprime in una lingua comune e semplice, e che deriva da una penetrante franchezza della visione poetica”. Quando un allievo gli chiede a quale dei cinque stili poetici da lui individuati appartenga quello di Dante (l’adatto, l’efficace, l’illuminato, l’ispirato, l’inevitabile), Aurobindo dice che è in gran parte il puro inevitabile, e che E ‘n la sua volontade è nostra pace (Pd III, 85) è uno dei più grandi versi di tutta la letteratura poetica”.

E’ quasi un paradosso che abbia continuato a scrivere quasi solo in inglese (“lingua plasmabile del futuro”) – persino il suo poema Savitri, su cui lavorò fino all’ultimo giorno di vita – un inglese ‘tecnico’, forbitissimo e ricco di ipotassi atte a precisare le minime distinzioni. Mentre ciò di cui andava in caccia nella poesia è un segreto metafisico (The Secret of Veda): il suo valore di mantra, non formula incantatoria, ma canto che sgorga dall’anima pura, la Parola “ispirata e inevitabile che costringe anche noi a vedere. Arrivare a quella parola è tutta l’impresa della scrittura poetica”[41]; “I grandi poeti sono coloro che ripetono in qualche misura la creazione ideale, kavayah satya´srutaḥ”; “Alcuni metri (chandas) sono ritmi che fissano la Parola formativa, ed è perché sono fedeli a metri cosmici che i movimenti di base del mondo durano invariati. Il movimento metrico non è altro che il suono creativo cresciuto a coscienza del suo segreto e dei suoi poteri.”

Sri Aurobindo così capovolge del Ṛgveda le letture convenzionali di eruditi indiani e occidentali, che ferme al senso naturalistico vanno incontro a vistose incongruenze: davvero riduttivo considerarli inni di propiziazione agli dei per ottenere grasse mandrie. Al contrario: “I dettagli dell’esistenza esteriore e dei riti sacrificali sono simboli, suggestioni e figurazioni vive e potenti di realtà interiori (…) una forma che ricorrerà frequentemente nei testi successivi dell’India (nei Tantra, nei Purāṇa, nei poeti vaiṣṇava…) e che presenta analogie con alcuni poeti cinesi e con le immagini dei sūfi islamici.”[42]

 

Un senso specifico, linguistico per la lettura ‘vedica’ di Dante, implicherebbe una complessa analisi comparativa qui non praticabile. Del resto, il sanscrito vedico, ancor più se considerato un “protoindoeuropeo”[43], è una lingua di cui conosciamo le discendenze, ma non le ascendenze, è anche per noi una lingua rivelata, data così com’è – mentre di quella dantesca abbiamo l’intera storia pregressa. Si potrebbe cercare di definire che cosa trasmette il ritmo, la celebre “terzina incatenata” dantesca: qual è la musica di Dante – e quale il ritmo, la musica dei Veda. Il suono della matematica terzina incatenata (rima ABA, BCB, CDC etc; secondo accento del verso sulla decima sillaba, variabili gli accenti interni) è quello che ha formato l’identità poetica dell’italiano alto, dottrinale e misterioso – ma anche popolar-proverbiale dell’homo italicus (in parte europeo). Ha come base il ritmo latino – più che l’esametro della poesia, quello del Diritto e della Religione iniziatica dei Romani – che i cristiani ereditano e trasformano.

La seconda musica è tuttora udibile nelle recitazioni brahminiche nei mille luoghi sacri dell’India[44]: l’esecuzione di un rito (in certi casi, con l’esattezza d’un colpo d’ascia sul collo di un montone), la materialità della Parola sillabata, ritmata come dono a forze invisibili: riverenza e riaffermazione del dharma, fierezza di esserne i funzionari su questa terra, necessari prosecutori di Quello – fuori dal tempo e dal mercato, ma per tutti servizio essenziale.

 

L’immaginazione creatrice (per dirla alla Corbin) del ṛṣi trova il ritmo (“rito”, “arte”, “verità” vengono da ṛta, l’ordine cosmico, più tardi dharma), il giusto metro per evocare (l’esperienza di) una forza spirituale, cosmica, che è insieme psichica, e pronunciandola, nel sacrificio della Parola, ne rinforza l’Essere. Gli inni vedici sono sempre lodi, ringraziamenti e inviti all’incarn-azione, soggettiva e oggettiva insieme, delle energie invocate.

Al di là di affinità religiose o spirituali, è la qualità di archetipi – a esempio la luce – che la potenza estraniante della parola dantesca e vedica genera nel lettore. Si potrebbe ‘misurare’ la forza della Poesia sul ‘salto quantico’ che un suo verso produce, sul grado di thauma (sanscrito samvega), di stupore e arresto che essa genera – per la sua distanza dall’ordinario, o per la profondità interiore che ci sbalza a ri-conoscere.

 

Luogo celebre della terra nella Commedia è quello dei Giganti, i “figli della Terra”: come gli asura vedici e i Titani preolimpici, quasi “avrebbero vinto” (If XXXI, 121), ma sono ben conficcati al fondo – così come gl’inni vedici auspicano per l’oscuro vṛtta. Al contrario, per Dio si afferma: “e la sua terra è questa dolce vita” (Pd XXV, 92). Luogo appena sotto terra è invece quello dove sorge il nobile castello degli “spiriti magni”, il Limbo “sette volte cerchiato d’alte mura” che difende soprattutto i Filosofi dell’antichità classica (a partire dal “maestro di color che sanno” Aristotele), assieme ai sommi poeti, Virgilio stesso, Omero, Orazio, Ovidio, Lucano – “sì ch’io fui sesto fra cotanto senno” (If IV, 102), ma anche eroi ed eroine non battezzati.

All’Inferno domina un aere bruno, al quale Dante trasmette la sua paura: “sì che parea che l’aere ne temesse” (If I, 48), ma in tanta oscurità il viator risulta eroico: “e io, sol uno,/ m’apparecchiava a sostener la guerra/ sì del cammino e sì della pietade” (If II, 3-5). Un “aere dolce che dal sol s’allegra” è invece rimpianto dagli accidiosi, nel limo puniti col non poter parlare chiaramente. Nell’etere del Paradiso (che è il luogo di mezzo in cui scrivono i ṛṣi vedici), come un astronauta Dante torna giù a guardare “questo globo” (la Terra) e sorride “del suo vil sembiante” (“l’aiuola che ci fa tanto feroci”: Pd XXII, 151), mentre “in su vid’io così l’etera adorno/ farsi” (Pd XXVII, 70-71) dopo l’invettiva di San Pietro contro i papi. “Nel Ṛgveda – scrive Sri Aurobindo – l’etere è il massimo simbolo dell’infinito, corrispondente all’àpeiron greco (…) cala in terra il fuoco dall’empireo.”[45]

Una terzina di Dante sull’acqua unisce esperienza comune e soprannaturale: “Per entro sé l’etterna margarita/ ne recepette, com’acqua recepe/ raggio di luce permanendo unita” (Pd II, 34-36). La margarita è la Luna, considerata inalterabile corpo celeste – che pure accoglie Beatrice e il viator come l’acqua il raggio di luce (lei-e-lui fusi !) e la docile trasparenza implica la bontà dell’elemento primordiale Acqua.

Nel Ṛgveda sempre le acque sono plurali, fasci di energia viaggianti fra i “tre firmamenti” (trini rocanā) e il nostro emisfero inferiore, fatto di mente, vitalità (prana) e materia – in mezzo vi è il Sole, dimora della Verità (sadanam ṛtasya) – e il continuo movimento, fra alto e basso e viceversa, segnala l’interscambio sacrificale dell’universo rgvedico, non bloccato in posizioni antitetiche, ma fluido e mutante fra il cosmico e lo psichico. Come nota il traduttore Tommaso Iorco, gli stessi “tre firmamenti” superiori si possono considerare quali diverranno nel Vedānta, l’Esser-Coscienza-Beata, satcitānanda. Vi è un grande oceano (maho arṇaḥ), di cui l’uomo acquista coscienza mediante i raggi dell’intuizione (pra cetayati ketuna); come i sette Sapienti biblici, sette correnti (sapta sindhu) sgorgano dal cielo e sono “acque che sanno” (āpo vicetasaḥ), conoscitrici della Verità: liberate, “scalano la mente” (mano ruhānāḥ).

E se luce (sura) e tenebre (asura) “allattano entrambe l’infante divino”, quali sorelle immortali che hanno in comune un solo amante, il sole, è perché Agni, il nostro fuoco interiore, il risveglio dell’anima ampiamente ce le rivela. Non solo il primo mandala (191 inni) è a lui dedicato, ma moltissimi dei 1028, perché si tratta del motore tecnico, che ogni volta s‘accende nel rito yajña sull’altare del fuoco: “Accetta, Agni, questa parola copiosa (saprathastamaṁ vacaḥ), gradita agli dei, che poniamo sulle tue labbra (…) chi ti è simile ? chi sei ? dove dimori ? Sei l’amico di tutti gli uomini, il loro beneamato redentore (…) grazie allo yajña, Agni ottiene la sua sede” (I,75,5).

In Dante il fuoco è triplice: infernale divoratore (eretici fra cui Farinata, If X, 22-23); purgatoriale purificatore: “Poi vidi genti accese in foco d’ira” (Pg XV, 106); paradisiaco di carità o amore: “quand’ella entrò col foco ond’io sempr’ardo” (Pd XXVI, 15); San Pietro “foco benedetto” (Pd XXIV, 31); i Serafini (“ardenti” in ebraico), “fuochi pii” (Pd IX, 77); e particolarmente nel XXII del Paradiso: “Se tu vedessi/ com’io, la carità che tra noi arde” (31-32); poco oltre: “Questi altri fuochi tutti contemplanti/ uomini fuoro, accesi di quel caldo/ che fa nascer li fiori e ‘ frutti santi”. Questo fuoco perfettamente corrisponde ad Agni nel Ṛgveda. “Se non si è passati col corpo attraverso il fuoco / non si può reggere quella delizia[46].

Più metafisicamente, alla fine del Purgatorio Dante “Vedea la cosa in sé star quieta/ e ne l’idolo suo si trasmutava” (Pg XXXI, 125-126): silenzio, das Ding als sich (“la cosa in sé”), tad ekam, quell’Uno (Cristo), che negli occhi di Beatrice pulsa dall’umana alla divina delle sue due nature. Il nostro vedere è di un idolo, una piccola immagine mutante. Possiamo solo essere specchio della Realtà inconoscibile, mutando anche noi. Una delle molte estasi nella Commedia. Potrebbe essere anche questa la “dottrina che s’asconde”: il lettore legge, sospinto dalla vicenda, dalla suspence del Viaggio – e non si accorge che alla fine di essere mutato, divenuto altro da sé.

Anche nel Ṛgveda, la “cosa in sé” a volte si evince come in uno specchio: “Non è ora né diviene in futuro; chi conosce Colei che è suprema Meraviglia ? Possiede movimento e azione nell’Altro, ma sfuma se accostata al pensiero[47]. Il mentale non può mai giungere a comprendere la suprema Meraviglia, che Qualcos’altro muove. Indra, la “mente di luce” sta parlando a un ṛṣi, Agastya; gli chiede perché col pensiero cerca sempre di andare oltre: “Fratello, amico, che Agni sia ben messo sull’altare del sacrificio, questo basti”; finché Agastya lo riconosce: “O dio che governi ogni sostanza dell’essere, tu sei il Signore dell’Amore, il più possente” (ivi, 5).

Non si ricorda mai abbastanza che la beatitudine (ananda) è la condizione originaria dell’essere e quella finale della quête umana – come dice Taittirīya Up. (III, 6, 1): “Dall’ananda l’intero universo scaturisce, per l’ananda sussiste, all’ananda ritorna” (ānandādhyeva kalvimāni bhutāni jāyanti/ ānandena jātani jīvanti/ ānandam prayantabhisamviśantīti). Dante: “La forma universal di questo nodo/ credo ch’i vidi, perché più di largo/ dicendo questo, mi sento ch’i godo” (Pd XXXIII, 91-93). La misura del godimento è nella scrittura del godimento (quel poco che Dante ricorda dell’estasi finale al cospetto di Dio): in questa metafora l’ineffabile è non più solo visivo, bensì propriocettivo, archetipico. Così è comparabile con lo scioglimento dei veli della conoscenza nell’inno rigvedico: “Un piano ne genera un altro, velo dopo velo la Sapienza divina apre la coscienza; nel grembo della propria Madre l’anima vede”.[48]

Nella roccia dell’inconscio sono celate le “mandrie di luce” (go = vacca e luce) che la folgore e i cavalli di Indra estraggono, il “sole del vero” perduto nell’oscurità, così esorcizzando il “serpente dell’abisso” vṛtra verso una nuova aurora (uṣas), la quale andrà in sposa a sūrya, il sole stesso. Lo scopo costante dei cantori vedici è separare la luce dalle tenebre (jyotir vṛṇītā tamaso vijānan: III, 39, 7), permanendo in un regime di ebbrezza estatica. Al dio Soma è dedicato l’intero nono maṇḍala (114 inni, sūkta), ma è presente anche altrove: “O dinamico, scorri e nella corsa appaga il Cielo e la Terra possenti, come sūrya e uṣas coi loro raggi[49].

 

  1. Antichi e nuovi veggenti

 

La redazione scritta del Ṛgveda si fa risalire a un periodo (1500 a.C) precedente a quello dei poemi omerici (700-500 a.C.). Ma un esempio di parentela omerico-rigvedica sono le “vacche del Sole” così presenti nel Ṛgveda: il libro XII dell’Odissea canta il naufragio della nave di Ulisse fra Scilla e Cariddi, in cui annegano tutti i suoi compagni, puniti per aver profanato (ucciso e mangiato), in un’isola felice proprio le vacche del Sole: Odisseo solo si salva perché se ne è astenuto (dormiva), seguendo gli avvertimenti di Tiresia e Circe Eèa: “D’un terribile dio sono le vacche e le floride greggi/ del Sole Iperìone, che tutto vede e ascolta dall’alto” (322-323) potrebbe avere la stessa fonte del Ṛgveda o derivare da questo.

 

La raffinatezza, complessità, ‘sicurezza’ della scrittura vedica suppongono millenni di recitazione orale. Gli inni rgvedici emanano un senso di potenza, di ‘verità’ invulnerabile quale nessun altro poema – come provenissero da una vita senza tramonto, un’Aurora perenne dell’umanità. Il lavoro di Sri Aurobindo ne ha dischiuso il Segreto. Se già molti degli dei greci sono da considerare allegorie di comuni emozioni, patologie, idee (Jung, Hillman) – per gli inni agli dei vedici ecco un’interpretazione ‘iper’-antropologica: forse una “supermente” attraverso i veggenti, ha lasciato, prima della fine della loro civiltà, una traccia, un segno dei canti da loro ‘uditi’ (śruti) per migliaia d’anni, la voce dell’ultimo regime di sapienza al potere. I ṛṣi invocano molteplici potenze meditative, nominano centri di fisiologia invisibile (“il Figlio luminoso nasce e illumina i Due da cui è stato generato, invia le sette grandi Correnti, nutrite dall’Occhio unico… rende agevole i Percorsi” IX,9) – parole altrimenti indecifrabili. Documenti dunque dell’ardore straordinario con cui un tempo l’umanità ha saputo vincere le ricorrenti forze tamasiche o le umane passioni: mediante gli inni alla gioia, divina e unanime, che sola può superarle. In tal modo infatti il Ṛgveda si chiude (X, 191): “Uniti in una sola aspirazione, accordati in un unico cuore, in un’unica mente, godiamo dell’intima unità fra noi tutti” (samānī va ākūtiḥ samānā hṛdayāni vaḥ/ samanamastu vo mano yathā vaḥ susahāsati).

 

Non vi sono dubbi sul ruolo del soma, corrispondente al greco ambrosia (sanscrito amṛta) “miele immortale”, in molti inni assimilato al sole stesso, allucinogeno offerto agli dei con un minuzioso rito. Gli steli di una misteriosa pianta – per Gordon Wasson[50] il fungo enteogeno amanita muscaria, ingrediente anche del kukeon dato all’iniziando (mystes) nei Misteri Eleusini per giungere alla Visione (epopteia) – venivano pestati su una pietra, e aggiunto il burro chiarificato ghṛta (certo anche una meditazione), il liquido era versato sul fuoco per inspirarne i vapori. “Abbiamo bevuto il soma, siamo divenuti immortali, giunti alla luce, abbiamo trovato gli dei. Chi può nuocerci ormai, quale pericolo può raggiungerci, o soma immortale! penetrato nelle nostre anime, Immortale in noi mortali[51] (VIII, 48, 2); oppure: “I ciechi riescono a vedere e gli storpi camminano!” (VIII, 79, 2). L’esaltazione dei ṛṣi echeggia nei successivi canti (gāthā) avestici che menzionano l’haoma, e nel riformatore Zarathustra (Jarad-drastha) – Nietzsche si invaghì di questo nome, e senza aver letto il Ṛgveda a suo modo lo intuì nella poesia dell’oltreuomo. Non vi sono dubbi nemmeno sul forte ceppo degli Indoeuropei, da cui ha origine la grande famiglia linguistica cui appartiene non solo la vasta area indo-iranica (fino all’India centro-meridionale), ma a ovest l’armeno, lo slavo, il baltico, il celtico, il germanico, il greco, il latino e quindi le lingue romanze.

Secondo gli ultimi reperti archeologici[52], che situano più a nord e remoti gli inizi della “civiltà dell’Indo” (fra i sigilli delle famose città di Mohenjo Daro e Harappa figurano posizioni yoga), i protoindoeuropei erano stanziati nella valle del fiume (ora interrato) Sarasvatī nell’India nord-occidentale – da cui si sarebbero mossi a sudest verso la pianura del Gange, e a sudovest verso l’Europa. Dato che nella valle del Sarasvatī si coltivava il riso già 7000 anni fa, si parla ora di “civiltà dell’Indo-Sarasvatī” (senza alcuna “invasione ariana”). Sui motivi delle migrazioni primeggia quello del cambiamento climatico. Ma qui si innesta una mitica tradizione greca, ripresa nel ‘700 dall’astronomo e letterato Jean Sylvain Bailly, che nelle sue Lettres sur l’Atlantide de Platon (1779) unisce il mito di Iperborea a quello di Atlantide, configurando un’evolutissima, iniziale civiltà nordica. Sarà poi la competenza sanscrita di Bal Gangadhar Tilak (1856-1920), con The Arctic Home in the Vedas (1903)[53], a dar corpo alla sconcertante ipotesi di una dimora circumpolare dei vedici ! Se infatti, in un interglaciale dvāpara-yuga, fra il 12.000 e l’8-7000 a.C., l’artico ha davvero goduto di un clima mite, l’ipotesi spiegherebbe il continuo riferimento vedico alle costellazioni che ruotano basse all’orizzonte “come ruote di un carro” (il sole stesso lo fa, riferiscono i testimoni del “sole di mezzanotte”), mentre la stella polare è allo zenit, e sarebbe una spiegazione (fin troppo logica) della loro insistenza sulla luce che deve tener lontane le (lunghe) tenebre (boreali)…

Tibi serviat ultima Thyle”: così Virgilio (Georgiche I, 30) augurava all’imperatore Augusto, “che il tuo regno giunga fino a Tule”, all’inesplorato Nord del mondo. E come il suo Maestro, lo stesso Dante dunque avrebbe potuto menzionare questa terra (quasi) incognita, forse l’Islanda…ma giustamente situò il suo Eden sul monte australe antipodico a Gerusalemme – peraltro risultando così coincidente con Tahiti e le magiche isole del Pacifico, che insieme alle Hawaii sarebbero i resti di un altro mitico continente perduto, Mu. Però tutte le bussole indicano il Nord (scrisse Silvano Panunzio), cioè tutti i miti convergono a un’unica, felice Origine dell’umanità.

 

Dante ha levato il suo poderoso canto del cigno della poesia classica. Sri Aurobindo quello di uno yoga tantrico che mira a pilotare nella materia un’evoluzione divina. Il suo Savitri, poema della vittoria sulla morte, ha lo stesso intento della scienza contemporanea. Attraverso la Mère egli ha continuato a operare nell’immaginazione tecnica: la Mère ha chiamato Auroville la città da lei fondata (1968) secondo i principi di Sri Aurobindo, la città dell’Aurora, un audacissimo esperimento politico-spirituale e un colossale progetto tecnologico soft, possibile solo in India.

Per entrambi, Dante e Sri Aurobindo, l’impresa è stata poetica ed epistemologica: per Dante la forma poesia (per il grande pubblico) era frutto di studium, letteralmente “amore” (come tutto il Convivio dimostra) ma era la scienza del tempo che Dante voleva trasmettere in poesia. Oggi tutto questo può rivivere solo quando la retorica della scienza, la sua narrazione riprende le intuizioni e le formule della Sapienza di ogni tempo. Per esempio Fritjof Capra che inventa il Tao della Fisica, David Bohm il “cervello olistico” e l’olomovimento, la fisica quantistica l’entanglement, cioè il non-localismo degli elettroni in vibrazione…

 

Tutto è in evoluzione, in questo straordinario tempo supplementare della partita uomo-automa – in questo scurissimo però meraviglioso, liberissimo tempo, in cui sembra impossibile rifondere gli insegnamenti dei Maestri dell’Umanità e trovare la variante singola, individuale forma di morte e ri-generazione di sé, e quindi del mondo.

 

nicola licciardello

luglio 2017

 

 

 

 

 

 

[1] Adolfo Cecilia, in “Enciclopedia Dantesca” 1970. Un discorso filologico aveva già sviluppato Giuseppe Gabrieli Dante e l’Oriente, Zanichelli, Bologna 1921, xi, 138 p. (www.liberliber.it).

[2] R. Panikkar, Il Cristo sconosciuto dell’induismo. Verso una cristofania ecumenica, riedito da Bur 2001, tesi di laurea uscita a Londra nel 1961, più volte ripresa e ampliata; Visone trinitaria e cosmoteandrica, Opera Omnia vol. VIII, Jaka Book, 2008; Una cristofania, vol. III, 2; Mito, Simbolo, Culto (vol. IX, 1) esamina la tradizione indiana.

[3] Nella lettera a Cangrande e in Convivio (II, 6-8), Dante, che considera sacra anche la sua scrittura, estende il metodo ermeneutico a “ogni scrittura”.

[4] Certamente note a Brunetto Latini durante la sua permanenza in Spagna presso la corte cosmopolita di Alfonso X “el Sabio”, e forse trasmesse oralmente a Dante.

[5] Henry Corbin, L’immaginazione creatrice (Flammarion, Paris 1958-1975), Laterza, Bari 2005. Introduzione: La curva biografica di Ibn ‘Arabi e i suoi simboli; Il pellegrino d’Oriente, p. 47; Simpatia e teopatia; cap.II Sofiologia e “devotio sympathetica”, p. 127, e nota 16, p. 283: L’immaginazione di Sofia in Ibn ‘Arabi.

[6] Il mito greco (Esiodo) delle quattro età dell’umanità (d’oro, d’argento, di bronzo e di ferro) – un’allegoria delle quali è nella figura del «veglio di Creta» (If. XIV, 94-120), le cui lacrime formano i fiumi infernali d’acqua (Acheronte), fango (Stige), sangue (Flegetonte), ghiaccio (Cocito) – raffigura solo la decadenza e non un ciclo.

[7] Prima di lui gli astrologi indiani misuravano in daiva, anni divini che equivalevano a 365 dei nostri, per cui i 1200 anni del Kali yuga significavano 432.000 anni terrestri ! Si veda Daniele del Bosco: https://www.centrostudilaruna.it/considerazioni-sulla-datazione-del-kali-yuga.html.

[8] La tradizione hindū così codifica la successione degli stadi della vita (aśrama): 1) studio e celibato (brahmacārin), 2) capofamiglia e professione (ghasthya), 3) ritiro in meditazione (vānaprasthya), 4) completa rinuncia vivendo di elemosina (sanyāsin). Ma l’Artha Śastra per i giovani prevede il kāma, cioè l’eros.

[9] Si veda G.G. Filippi, Discesa agli Inferi. La morte iniziatica nella tradizione hindū, Novalogos, Venezia 2014.

[10] Bhagavad Gītā, cura di Sarvepalli Radakrishnan, sancrito traslitterato, tr. it. Icilio Vecchiotti, Ubaldini, Roma 1961. Attribuito a Vyāsa, intorno al 500 a.C., 700 strofe (śloka) di 4 ottonari ciascuna, è una speciale Upaniad nel gigantesco Mahābhārata, uno dei poemi di fondazione dell’identità indiana.

[11] sīdanti mama gātrāi / mukha ca pariśuyati / vepathuś ca śarire me / romaharaś ca jāyate (I, 29).

[12] na kākse vijaya kṛṣṇa/na ka rājya sukhāni ca/ki no rājyena govinda/ki boghair jīvitena vā (I, 32).

[13] kulakaye praaśyanti/ kuladharmā sanātanā/ dharme naṣṭe kula ktsnam/ adharmo ‘bhibhavaty (1, 41).

[14] sagāt sajayāte kāma / kāmāt krodho bhijāyate (2, 62).

[15] jñāna labdhvā parā śāntim (4,39).

[16] vā tmanā ‘tmāna / paśyann ātmani tuỵati (6,20).

[17] Ugo Foscolo, Discorso sul testo della Commedia di Dante, Pietro Rolandi, Londra 1842: “Dante s’aggiudicò la corona, aspettandola non dall’applauso, né dal perdono de’ Fiorentini, bensì dal decreto divino per la legittima autorità della sua missione, e il merito d’aver militato contro la Chiesa puttaneggiante”.

[18] Ma in Conv. (III,14) è nella ragione (‘donna gentile’, nobiltà e libertà d’animo) che ha origine “la nostra buona fede, da la quale viene la speranza, lo proveduto desiderare; e per quella nasce l’operazione de la caritade”.

[19] puyo gandha pthivyām cā/ tejaś ca ‘smi vibhāvasau/ jīvana sarvabhūtesu / tapaś cā ‘smi tapasviu (7,9).

[20] na tv aha teu te mayi (7,12).

[21] yo-yo yā-yā tanu bhakta/ śraddhayā ‘rcitum icchati/ tasya-tasyā ‘cala śraddhā/ tām eva vidadhāmy aham (7,21).

[22] Però l’inizio del cap. 16 enumera le virtù del Realizzato: assenza di paura, purezza di cuore, fermezza nella concentrazione, generosità, sacrificio, studio, rettitudine – da cui “non-violenza, verità, libertà dall’ira, discrezione e ponderatezza, compassione per gli esseri viventi”: teja kamā dhti śaucam / adroho nā ‘timānitā / bhavanti sapada daivīm / abhijātasya bhārata (16,3).

[23] Ananda Coomaraswamy, il mite archeologo e straordinario artigiano, fra le due guerre, della trans-culturale Philosophia Perennis, in uno studio del 1938 trova l’archetipo dell’Albero Rovesciato diffusissimo nella letteratura sapienziale hindū (Il grande brivido Adelphi, Milano 1987, cap. 22, pp. 323-353).

[24] yajño dāna tapaś cai ‘va / pāvanāni manīinām (18,5).

[25] Delle tre specie d’intelletto, è sattvico quello che discrimina il momento dell’agire da quello di non agire, ciò che si deve e ciò che non si deve fare, temere o non temere, ciò che lega e ciò che libera: pravtti ca nivtti ca / karyakarye bhayabhaye / bandha moksa ca ya vetti / buddhi sa partha sattvikī (18, 30).

[26] sve-sve karmay abhirata / sasiddhi labhate nara (18, 45).

[27] Conv. II,13 collega le arti del Trivio e del Quadrivio ai cieli: la Grammatica alla Luna, la Dialettica a Mercurio, la Rettorica (che ragiona d’amore) ha la chiarezza e apparenza di Venere, l’aritmetica al Sole, la Musica a Marte, la geometria a Giove, l’Astrologia a Saturno, la Fisica e metafisica all’ottavo cielo (Stelle fisse), la Morale al nono (Primo Mobile), la Teologia all’Empireo. La Galassia infine “ha similitudine grande con la Metafisica”.

[28] matprasādād avāpnoti / śāśvata padam avyayam (18, 56).

[29] Iśvara sarvabhūtānā / hrddeśe ‘rjuna tiṣṭhati / bhrāmayan sarvabhutāni / yāntraruhāni māyayā (18, 61).

[30] aham eva svayam ida vadāmi juṣṭa devebhiruta mānuebhi | ya kāmaye ta-tam ughra kṛṇomi tam brahmāa ta ṛṣi ta sumedhām (gveda X, 125, 5).

[31] aham tvā sarvapāpebhyo / mokayiyāmi mā śuca (18, 65-66).

[32] Tantra. Lo śivaismo del Kashmir, Laksmi Edizioni di A.S.Y.A. Om, 2012.

[33] Preziose qui le considerazioni di Giorgio Agamben, Stanze, Einaudi, Torino 1977; Prefazione, p.xv; e pp.154-155: “Attraverso il fitto entrebescamen testuale di fantasma, desiderio e parola, la poesia costruiva la propria autorità diventando essa stessa la <stanza> offerta alla joi che mai non fina dell’esperienza amorosa”. Dove “il trobar è clus perché è nel suo chiuso circolo pneumatico che si celebra l’unione senza fine del desiderio e del suo oggetto […] forse per l’ultima volta nella poesia occidentale, il suo gioioso e inesausto <unimento spirituale> col proprio oggetto d’amore […] progetto per sempre lucido e vitale col quale la nostra cultura poetica dovrà tornare a misurarsi, se e quando essa riuscirà a compiere il passo indietro e al di là di se stessa verso la sua origine.”

[34] Vedasi, a cura di chi scrive, Pietre che danzano. Ritmo e doppio senso nella scultura indiana, in “Rivista di Studi Indo-Mediterranei” III 2013, ora in Estasi.com, Mimesis, Milano 2016, pp. 247-263.

[35] Lama Thubten Yesce, La Via del tantra. Una visione di totalità, Chiara Luce, Pomaia 1988 (corsivi nostri).

[36] Convivio (II, 9) parla del raggio visivo: va dritto da pupilla a pupilla e dall’incontro spesso scocca qualcosa.

[37] Si veda Elémire Zolla, L’amante invisibile, Marsilio, Venezia 1986, p. 116. Zolla ha dedicato grande attenzione all’archetipo della Dama celeste che va a nozze spirituali con un poeta, in svariate culture.

[38] Questo succede a Dante ancora alla fine del Purgatorio, dopo le forti visioni e giusto prima che Matelda gli faccia bere l’Acqua dell’Eunoè, quando Beatrice diagnostica: “veggio te ne lo ‘ntelletto / fatto di pietra e impetrato, tinto” (Pg XXXIII, 73).

[39] Vedi Alex Wayman, The Buddhist Tantras, New York 1973; Hugh Urban, The Power of Tantra, South East Studies 2010.

[40] Ma nella lirica d’amore, come nei grandi poemi epici Mahābhārata e Rāmāyana (qui è centrale la storia d’amore di Rāma e Sītā), l’amata è una donna reale da soddisfare (cfr. Kamasutra). Si veda a esempio Poesia d’amore indiana, a cura di Giuliano Boccali, Marsilio, Venezia 2002, che oltre al Nuvolo Messaggero (Meghadūta) di Kalidāsa (sec. IV-V), contiene le Stanze dell’amor furtivo (Caurīsuratapañcāśikā) di Bilhana (sec. XI) e la Centuria d’amore (Śataka) di Amaruka (sec. VII-VIII) – questa tradotta da Daniela Rossella.

 

[41] Questa e le successive citazioni sono da: The Future Poetry, The Complete Works Vol 26, Sri Aurobindo Ashram Trust, Pondicherry 1997 (traduzione di chi scrive), cap. II: L’Essenza della Poesia; cap. III, Ritmo e movimento; cap. IV: Stile e Sostanza; cap. V: Visione poetica e Mantra.

[42] The Renaissance in India (vol XX dei Complete Works), in GVEDA, Trad. e cura di Tommaso Iorco, testo vedico a fronte, con alcune traslitterazioni, La Calama editrice, Pontedera 2016, pp. 2082. Si tratta della prima traduzione integrale in italiano – e include commenti di Sri Aurobindo a singoli inni.

[43] Più ricco del sanscrito successivo, quello vedico ha 8 casi (nominativo, vocativo, accusativo, strumentale, dativo, ablativo, genitivo e locativo), come il greco 3 generi (maschile, femminile e neutro) e 3 declinazioni del sostantivo (singolare, duale e plurale); numeri dall’1 al 4 declinabili, 10 classi e 10 tempi verbali, complessi modi di costruzione lessicale delle radici con suffissi, prefissi, infissi, raddoppiamenti per lunghe parole composte.

[44] I metri poetici hindū: gāyatrī, 3 ottonari; anuṣṭup, 4 ottonari; triṣṭup, 4 endecasillabi; bhatī, 3 dodecasillabi; jagatī, 4 dodecasillabi; più rari il pakti, 5 ottonari; l’uṣṇik, 2 ottonari e 1 dodecasillabo. Gli accenti: udatta (“sollevato”), acuto; anudatta (“non sollevato”), grave; in mezzo a essi è “aggiunto” svarita, un accento calante.

[45] Nota di Tommaso Iorco in gveda, cit, p. 1466.

[46] ataptatanūr na tad āmo aśnute śtāsa id vahantas tat samāśata (IX, 83, 1).

[47] Na nūnamasti no śva kastadveda yadadbhutham/ anyasya cittamabhi sacarenyamutādhīta vi naśyati (gveda I, 170, 1).

[48] abhyavasthā prajāyante pra vavrervavriściketa / upaste mātur vi caṣṭe (gveda V, 19, 1).

[49] sa pavasva vicarana ā mahī rodasī pṛṇa/ uā sūryo na raśmabhi (X, 41, 5).

[50] R.G Wasson, The Divine Mushroom of Immortality, Harcourt, Brace and Word, New York 1968; Padhy S. and Dash S.K, The Soma Drinker of Ancient India: An Ethno-Botanical Retrospection, Kamla Raj, 2004.

[51]apāma somam amtā abhūma ganma jyotir avidāma devān ki nūnam asmān kṛṇavad arāti kim u dhūrtir amta martyasya (VIII, 48, 2).

[52] Cfr. Andrew Lawler, Unmasking the Indus, in “Science” n.320, giugno 2008. L’Archeological Survey of India nel 2012 ha dichiarato i siti di Mehrgar, Bhirrana, Kunal, Rakhigarhi e Baror (Beluchistan e Ghaggar-Hakra) coltivati 7000 anni fa.

[53] Tr. it.: La dimora artica nei Veda. Nuova chiave per l’interpretazione di numerosi testi e miti vedici, a cura di Renato del Ponte, Ecig, Genova 1986 (esaurito). Si veda T. Iorco, Dai Veda a Kalki, La Calama 2003.

RG VEDA Anthology

30 agosto 2017

E’ ora di poter disporre dei Testi sapienziali più antichi dell’umanità, il Rig Veda. Nel 2016 è uscita la prima traduzione integrale in italiano. Da questa ora traiamo qualche lettura.

INNO ALLA CREAZIONE: X, 129

https://youtu.be/5_alJ50EWno

 

VAC , la PAROLA X 125

https://youtu.be/8OzxiGwo2PU

 

rshi PURUVARAS e ninfa URVASI

https://youtu.be/JRSKu30tnUk

 

ARANYANI X, 146

https://youtu.be/atkKsD99mis

 

VIII, 79 al DIO SOMA

https://youtu.be/hbYlyNmJdrw

 

V, 19 al FIGLIO NEL GREMBO MATERNO

https://youtu.be/3la69d9Cf_c

RIPARTENDO DA “ANTEREM”

14 agosto 2017

RIPARTENDO DA ANTEREM

 

 

 

Il numero 92 (2016) di “Anterem”, la natura del lavoro poetico riapre la riflessione (occidentale) su un tema inesauribile. Provoca a intervenire non solo la ricchezza e varietà dei saggi che lo compongono, ma un loro carattere – degno di indagine. Il fatto, cioè, che quasi tutti sembrano avere una qualità di scrittura ‘più poetica’ di altri testi presenti come poesia. Questa ‘poeticità’ credo stia nella loro qualità metadiscorsiva, che alla (meta)sensibilità contemporanea li rende più pregnanti dei ‘meri’ testi poetici. Al di là di possibili esempi, gli enunciati poetici contemporanei infatti spesso si danno come in una superficie liscia, diciamo a due dimensioni, un lacerto mentale logico, senza nemmeno figure retoriche – incompiuto, e che come tale potrebbe acquistare un ‘senso poetico’ in quanto rinvìo ad altri testi, allo stesso modo indefiniti… non aventi in sé una valenza poetica tradizionale. Mentre ce l’hanno questi saggi, in quanto comunicano una visione del mondo, una forma di ordine superiore alla casistica, un’intensità concettuale ed ermeneutica, etc. Molti poi hanno pregevoli qualità formali. Si tratta di prosa poetica, di “pensiero poetante”, sempre inscritto nella classica ricerca occidentale del tò estì, del che cos’è – tentativi di definire l’Essenza della poesia tanto più destinati al fallimento quanto più scavano nel profondo indicibile. Eppure è proprio questa meta-poiesis a conferir loro una verticale multidimensionalità.

 

Segnalo in particolare due interventi.

Innanzitutto La poesia come ascolto. Ordinario di Teoria letteraria e Letterature comparate, l’autrice Carla Locatelli mette in scena dialoghi (o metaloghi, avrebbe forse detto Bateson), domande e risposte, fra Autori disparati quali un Gémino Abad e un Denis Levertov, che sembrano rifrangersi, moltiplicando il rimando della poesia alle “parole piene, quelle in cui scorre il sangue-inchiostro vitale”. Nessuna decostruzione, dunque, implicita in questo approccio, ma anzi il riconoscimento di una parola poetica forte, autopoietica, trans-culturale e insieme ‘povera’, cioè che ricrea paradigma ritrovandolo nel linguaggio comune. Così possono incrociarsi le meta-poetiche di Helene Cixous: “scrivere è un bene, lasciare che la lingua ci provi, come si prova una carezza, prendendo il tempo che ci vuole a una frase per farsi amare, perché si riverberi” – e di Antonia Pozzi: “Bontà / a cui beve il suo canto / il cuore / e di cantare non può più finire / perché sei la sorgente che rifà / il sorso bevuto / e il suo fondo / non si tocca mai”. Il ricorso a exempla di tale profondità, trasparenza e semplicità verbale mi sembra premi questo piccolo saggio di un’alta consapevolezza e piena umanità.

 

Il secondo è quello di Enrico Giannetto, professore di antropologia ed espistemologia della complessità: La natura della poesia ovvero la poesia della natura. Valenza antichissima, ricorrente e sempre in nuova forma espressa. Qui colpisce, almeno nel panorama italiano, la singolarità del riferimento a una Natura vista come nella fisica quantistica più recente – e insieme inscritta in una visione e compassione (trans)religiosa. In una (mia personale) summa: “la natura della poesia è la poesia della natura. Siamo parte di una poesia non-umana. Siamo frammenti di sogni di un poema originario esploso nel nascere, simboli spezzati, unità perduta di infiniti linguaggi divini, ormai babelicamente confusi… iniziano i desideri di altri soli e altre lune… estasi e disperazione… siamo ancora immersi nella luce primordiale della creazione… illuminati in questa maestosa meditazione cosmica in cui ci perdiamo, in un nirvana cosmico incoato in cui ci estinguiamo con tutti i nostri egoismi… Useremo ancora le nostre parole ? oppure con e oltre le nostre parole, partecipando della sofferenza e della felicità di ogni cosa, daremo vita alla verità dell’amore totale nella sua grandezza finale, to ekfanéstaton ?”.

Ecco un linguaggio adeguato all’oggetto – che è insieme soggetto: “una poesia non-umana”. Eresia per la filosofia della modernità occidentale, che considera “muti”, “senza mondo” anche gli animali. Ma non è stato sempre così – si pensi al Rinascimento, all’apertura di Bruno, Cusano, Campanella, al romanticismo inglese a partire Wordsworth, o ai poeti beat americani. Però non è più con la filosofia classica che deve vedersela il discorso meta-poetico, ma con la Scienza e la Tecnologia – di cui sono parte anche le ‘tecnosofie’ trasformative orientali: “con e oltre le nostre parole”, scrive Giannetto. Non occorre infatti aderire in toto all’idea di cultura come ‘antropotecnica’ (auto)immunitaria (Peter Sloterdijk) per convenire con lui almeno su un punto: la confluenza fra quest poetica e askesis. La ricerca della parola poetica è sempre un esercizio, nel migliore dei casi un’ascesi o addirittura un’apofatica mistica. Questo è vero in senso verticale, ma oggi anche in senso orizzontale, con la globalizzazione delle etno-poetiche e quindi delle forme di poesia. Si diffonde, ad esempio, il riferimento alla poesia haiku zen come luogo del paradosso poetico per eccellenza: quello in cui natura e arte sono inseparabili, perché vi si manifesta senza sforzo ciò che è costato un incalcolabile sforzo evolutivo da una parte e meditativo dall’altra. E questo è vero anche per tutte le tradizioni orientali, come yoga e tantra o altre gimnosofie e arti.

 

In questo senso è azzeccatissima la scelta di distici dal Viandante Cherubico di Angelo Silesio ospitati in questo numero di “Anterem”, perché spesso è facile trovarvi l’eco di espressioni tipiche della mistica universale. “L’imperturbabilità. Non so che sia ! per me è tutt’uno: luogo, non-luogo, eternità, tempo, notte, giorno, gioia e pena”: un elenco trasversale che giungerà al Siddharta di Hesse e allo Zarathustra di Nietzsche; “Cos’è l’eternità ? Non è né questo né quello, né attimo, né qualcosa, né nulla: è non so cosa”: il che si può comparare alla Catuṣkoṭi, la quadruplice logica negativa del buddhismo Madhyamika (Nagarjuna); “Un uomo che sa governare le sue forze e i sensi, può a buon diritto valersi del titolo di re”: da Socrate, agli Stoici al Raja Yoga; “Se porti la tua navicella sul mare della divinità, lieto sei se vi anneghi”: “naufragar m’è dolce in questo mare” di Leopardi; “Va, e diventa tu stesso la scrittura e l’essenza”: ancora lo Zarathustra di Nietzsche.

Il libro, come simbolo e come medium, non è più l’unico veicolo della poesia. Continuerà ad esserlo in parte, almeno su questa terra, perché non è stato inventato un altro oggetto-strumento unico per il contatto immediato con l’interiorità umana. Unico come unica la parola che trasmette. La parola che è, inizialmente, verbo e nome – Nome, presagio o contrazione di un ritmo: la Cosa stessa sub specie aeternitatis – das Unvergesslich, l’Indimenticabile, aggiunge Benjamin. Quest’evento iniziale-iniziatico la poesia del libro custodisce ancor oggi (quando lo fa). Ma il decadimento ‘quantico’ (a proposito) e la proliferazione tecno-mediatica spingono oggi la poesia sempre più indietro, verso un atto linguistico primario, il coinvolgimento dell’intero corpo, la sua espressione performativa: una meta-volontà di potenza. All’inizio è l’azione (intuì anche Goethe) – l’azione senza parola. Ora registrata, riprodotta, ma sempre irriproducibile. Qual è allora, oggi lo strumento di trasmissione e, prima ancora, il meta-discorso possibile di una poesia-performance dell’intero corpo umano? Cosa può, simbolicamente, ‘implicare’ l’infinita ri-creazione di “eventi” complessi, territorialmente capillari Festival della Parola e della Sapienza, mostre individuali e collettive che intrecciano le arti (teatro, musica, acrobazia, divertimento…) ? O, in modo ancor più radicale, perché si continua a cercare ciò che si è già trovato ? la risposta vola nel vento, cantava qualcuno – ognuno deve di nuovo studiarci, non per trovare la sua risposta definitiva, ma per poter, ogni volta, lasciare il Sé rispondere.

 

Nicola Licciardello

Agosto 2016

 

Su ESTASI.COM

24 settembre 2016

Annamaria Granatelli (Analista Junghiana: “ATOPON”) 

Giuseppe Gorlani (scrittore, comunità i Cavalieri del Sole)

Rosatea Semolini (insegnante di yoga)

Gaetano Subhaga Failla (scrittore)

Salvatore Lavecchia (filosofo, Università di Udine)

Flavio Ermini (Direttore “ANTEREM”)

Brunella Gorni (ex insegnante di Lettere)

Franca Alaimo (poeta, redattrice “LA RECHERCHE.it”)

Fabio Simonelli (Redattore mensile “POESIA”)

GABRIELLA CARAMORE ultima-2016

5 settembre 2016

GABRIELLA CARAMORE-FESTIVAL DELLA MENTE, SARZANA 4 SETTEMBRE 2016

RENZO LUCCHIARI PIANOFORTE

25 ottobre 2015

MICROCOSM = MACROCOSM

25 ottobre 2015

FEDERICO RAMPINI AL FESTIVAL FILOSOFIA MODENA 2015

26 settembre 2015

Rampini, unico a parlare in piedi, simpaticamente e quasi spavaldo, ha chiarito alcuni importanti concetti di economia e finanza, dal suo punto di vista privilegiato di residente a New York. Interessante il suo accenno alla BITCOIN, moneta digitale creata dal basso, e il suo excursus storico sull’inflazione – sulla cui finalità di “tasso zero” è basata la filosofia dell’AUSTERITA’ europea.

CACCIARI: RIFIUTARE L’EREDITA’ DEL CRISTO E’ POSSIBILE

26 settembre 2015

Al termine del suo intervento davvero TEOLOGICO, a una domanda Cacciari risponde che sì, rifiutare l’eredità del Cristo (che ‘eredita’ perfettamente la volontà del Padre) è possibile, al prezzo però di scatenare la guerra tra fratelli.

NAVIGARE A VISTA

9 agosto 2015

NAVIGARE A VISTA

9 agosto ore 20

NAVIGARE A VISTA

9 agosto ore 20

Lorenzo Mazzucato mi sollecita a un articolo (contributo alla discussione) per ‘un nuovo soggetto politico’, come Norma Rangeri sul Manifesto. Sono loro grato, ma davvero in questo mondo non c’è più bussola, l’infinità di informazioni e di password per ottenerle ci soffoca, e così non sappiamo più niente. Il SAPERE stesso si è estinto.

NAVIGARE A VISTA, perché navigare comunque è necessario – siamo nell’Oceano, non in terra ferma: la terra trema, la terra si sbriciola sotto i droni, le comunità umane si spappolano, i feriti si trascinano in cerca di terre più ferme, non sapendo ancora quanto il Primo mondo si sbriciola anch’esso – assetato dall’ “alta pressione” (africana), dall’individualità senza uscita, dai lavoratori che cadono sui campi… Navigare a vista, dicendo qualcosa ? Che cosa, a chi – ai compagni della ciurma, o per protesta al capitano ? O c’è ancora un capitano al timone, che parla alla ciurma ? Parla a destra o a sinistra ? O si tratta ormai di navigatori solitari, che parlano a se stessi, come se questo potesse aiutarli a galleggiare nell’Oceano ?

Navigare a vista come su facebook, l’unica società vivente che ci è rimasta !

Nelle Grandi Narrazioni (come Moby Dick o l’Apocalisse) c’era sempre almeno un salvato che poi raccontava. Ma nella narrazione di ora ci sono miliardi di cellule umane, che cercano solo di eseguire compiti. La Rotta è già tracciata dai software del Millennio: Viaggi interstellari e Nanotecnologie mediche. Su cui l’Umanità intera, senza classi, Crede e Sacrifica se stessa. Quest’Ordine non è in discussione. Solo ci si lamenta talvolta dei sacrifici. Ma se si è d’accordo su quei fini, si è d’accordo su tutto, per esempio sull’alta finanza digitale, che pretende di sfruttare tutto il pianeta, o sull’eliminazione di chi volesse inceppare il meccanismo. There is no alternative. Se non la Guerra, più volte annunciata da questo papa ‘buono’.

Perciò la Sinistra non ha più senso. Il Papa può permettersi di dire ora cose che la Sinistra del resto non è mai arrivata a dire, e che invece i poeti vanno ripetendo almeno da mezzo secolo: la Natura si vendicherà della violenza umana. La ubris, dicevano già i Greci. La Sinistra, Partito e Sindacato, farebbe bene intanto a comprendere quanto e come è stata una Religione, laica a volte, ma una religione del Lavoro esecutivo, di fabbrica e di società, accompagnando le lotte dei lavoratori per la loro dignità. Un software connettivo, funzionale allo sviluppo tecnologico, un karma-yoga – anche se con quella punta utopica e intrigante, la Conquista della Libertà come immagine di sostituzione al Potere.

La Narrazione, la Teoria Generale ora non la fa più nessuno, o meglio la FA senza dirlo, o la Dice (i navigatori solitari forse prima di inabissarsi), solo chi si associa per creare formazioni di futuro: altro cibo, altra sanità, altre comunicazioni, altro imparare, altro sognare. Non so se e quali frammenti della Sinistra sono pronti a questa trasformazione. Auspico che ve ne siano, e che pertanto cessino di pensare a un Soggetto politico capace di rovesciare il neoliberismo, ma si scambino informazioni su attività concrete, su qualche fare comune.

Nicola Licciardello

RAGAZZA CANTA AD ACITREZZA

26 luglio 2015

Inaspettata, dolce voce di ragazza con piccolissimo chitarra, canta di fronte all’isola Lachea e i Faraglioni, teatro del nero più tragico, quello de LA TERRA TREMA di Visconti, a sua volta icona de I MALAVOGLIA di Verga. Quale mutamento di atmosfera, pur in presenza di una natura intatta !

NEL DILUVIO

13 giugno 2015

Samantha Cristoforetti torna sorridente dallo spazio: si è vista qualche immagine, dalla sua navicella, di continenti illuminati – chissà che sballo, chissà che senso di continuità, di unità dei luoghi pur morfologicamente diversi del pianeta, chissà che senso dell’UMANITA’ globale si ha da lassù… ma quanti soldi sono occorsi per questo lancio d’immagine, per questa Scienza che vive solo per creare la sua Immagine

Mentre la Grecia sta per essere cacciata via dall’Europa, anche se Tsipras continua a sorridere – sì, tutto somiglia a come possiamo immaginare l’Europa del 1915, della Prima guerra mondiale. Gli stati non sapevano ancora che stavano per scannarsi, a beneficio degli Usa. Stavolta faranno una guerra mascherata all’Africa e alla Siria e/o, di nuovo, alla Russia. Bisogna fermare i migranti. E bisogna testare i nuovi sistemi d’arma super-techno digitali. Siamo in piena fantascienza, una cattiva fantascienza, al posto dell’utopia, al posto dell’ecologia – che finalmente il papa fa sua a parole. Nessuna protesta, nessuna manifestazione della gente comune, nessun Facebook fermerà la catastrofe.

Il Destino dell’Occidente è scritto nella sua COLPA originaria, la frattura fra Anima e Corpo dichiarata da Platone e proseguita dal cristianesimo (‘successo’ del mio Ritmo origine della forma su academia.edu). Attraverso facebook trovo un articoletto di Agamben sul Benjamin che aveva compreso la virtualità, la FEDE del denaro quale essenza del capitalismo – il quale chiede solo LAVORO per la sua Autodistruzione, senza redenzione. Banche = Chiese. La consapevolezza di tutto questo non riesce a evitarlo. Perché è troppo tardi: quanti di noi sono disposti ad adottare un immigrato ? Perché non è chiaro quale sia un “lavoro socialmente utile”. Utile a che cosa ? un lavoro nella prospettiva capitalista, un lavoro non importa quale, come FEDE, come trascendenza che distrugge vita sulla terra ? quale altro lavoro è ormai immaginabile, se per affermarsi ha bisogno proprio della sua Immagine Techno ? Quale Cultura ormai può essere “alternativa” ? Ovviamente, anche la New Age (e persino il Buddhismo) è dentro il Grande Progetto Apocalittico. Non c’è salvezza, non c’è redenzione, non c’è speranza. Possibile è solo consapevolezza: Arte di vivere, o di sopravvivere. Perseguire una Forma, sapendo che è Vuoto.BARCA NAVE CON LUNA PIENA copia

ALMERIM a TATTI – KAMMERFOLKMUSIK

26 luglio 2014

ALMERIM, bel nome evocativo di atmosfere mediterranee e non solo, per un gruppo tosco-svizzero, che ha eseguito una folk music quasi ‘da camera’ – tale è la piazzetta di Tatti, minuscola frazione di Massa Marittima, Maremma – a tratti piena di verve e guizzi ‘rebetiko-country’. Musica, bambini che si rincorrono, donne che danzano: un bel modo di vivere il borgo medievale.

DALAI LAMA a LIVORNO: VACUITA’, COMPASSIONE, ETICA CRITICA

18 giugno 2014

Si può proporre una legge per cui i politici neoeletti, dai consiglieri comunali ai ministri, prima di esercitare le loro funzioni, facciano un corso di Vipassana, o di Tai Ji, o di yoga ? Il security tough man mi ha ingannato, dicendomi “torni a sedere, la chiamo io”, anziché dirmi “si metta lì in coda”, così non ho potuto fare la domanda. La mia gentile vicina Julia, che mi ha ceduto il posto per fotografare ancora più centrale, quasi di fronte a Sua Santità, era d’accordo – ma c’erano tutti i ‘bambini’ da accontentare prima. E poi il Dalai Lama avrebbe risposto che la distruzione delle emozioni negative avviene attraverso saggezza e compassione, non si può fare per legge. Ha mostrato davvero tutto il suo “Oceano di Saggezza” per 4 giorni – non una cerimonia, ma un gran lavoro. Non turbato e nemmeno imbarazzato dagli accaniti, sempre urlanti “Stop Lying Dalai Lama !” contestatori Dorje Shugden: ha toccato il tema anche rispondendo a domanda (pubblico folto, attento, disciplinato e silenzioso), riconoscendo che aveva praticato questo culto fino agli anni 70, ma avendo fatto esperienza di che cosa è – una variante di black power – l’ha abbandonata e non può dare insegnamenti ai suoi seguaci, in quanto setta. Non ha aggiunto che probabilmente sono finanziati dai cinesi, che vogliono la disgregazione del popolo tibetano risospinto in un lamaismo – ma è quanto risulta da Wikipedia e altri articoli sul web.
Saggezza e compassione, saggezza della compassione, quindi dialogo: tutte le grandi religioni insegnano la stessa cosa, l’amore universale, qualcosa di unicamente umano, oltre che materno e biologico. Dialogo e non-violenza – tolleranza, perdono e semplicità: questo è l’Insegnamento necessario. I metodi sono diversi, come i credi filosofici delle religioni hanno diverse inflessioni storico-locali. Ai tempi del Buddha in India c’erano ecatombi di animali sacrificati, per cui assieme al Jainismo è stata enfatizzata la non-violenza, e così il rifiuto delle caste. L’islam nacque in una società nomadica piena di crimini, per cui l’enfasi sulla shaaria. Il Buddha stesso diceva cose diverse, a seconda dell’uditorio giungendo ad ammettere il Sé (Induismo), anziché l’Anatman. Lasciare a ogni religione il suo credo specifico: su cosa c’è dopo la morte, per esempio, o sul Dio creatore – “Questo è affar tuo” direbbe a un cristiano “mentre Shunyata, la vacuità è affar mio”. Il Tibet ha conservato la tradizione Nalanda in sanscrito per mille anni. Noi si imparava a memoria i Testi Radice, poi si studiavano i commenti a parole-chiave e infine si aprivano i dibattiti logici, veri e propri tornei intellettuali. Toccherà alle nuove generazioni trasmettere gl’insegnamenti, ma già i neuroscienziati contemporanei ricavano e confermano molte indicazioni buddhiste sul funzionamento della mente.
La scienza mira al benessere fisico, la fede alla pace interiore: abbiamo bisogno di entrambe, dunque c’è armonia.

Ma se questi sono gl’insegnamenti, ciò che per noi occidentali conta è l’Insegnante. Il Dalai Lama ha alternato l’inglese al tibetano e durante le traduzioni (il bravo Fabrizio Pallotti) ha adottato non una rigida postura d’attesa, ma il più vario atteggiamento – dall’umiltà al dialogo di sguardi e sorrisi col pubblico, alla pensosità. Personaggio unico, come la sua comunicazione. Un linguaggio del corpo ricchissimo, ma schietto e misurato, la sottile (auto)ironia, l’amichevole semplice naturalezza, la voce potente della salmodia tibetana giocata con una varietà di sfumature fino al falsetto. E così quello che trasmette è effettivamente amore, ma non la nostra emozione dell’amore – cioè l’ansia del cuore e del respiro, e le conseguenti passioni, come paura e gelosia – piuttosto la quiete di un impegno costante, alla meditazione e al dialogo fra gli umani, senza alcuna presunzione di possesso della Verità, in nome di un’etica secolare. Non mostra la minima emozione nemmeno quando si parla di Cinesi in Tibet, eppure afferma che è necessario farsi sentire, dimostrare, rifiutare – ma senza astio, senza odio contro l’avversario, anzi col fine di comprenderlo e aiutarlo a superare il problema: il problema è l’azione sbagliata, non l’attore – di quella ci si scusa o confessa – così come perdono non significa accettare supinamente, ma riconoscere l’azione sbagliata, non l’attore. La compassione fa bene innanzitutto a chi la da’, chi la riceve dipende: racconta della donna tedesca che lo avrebbe aggredito in risposta al suo sorriso a bordo dell’auto.
L’affetto con cui stringe a lungo la mano al vescovo di Livorno Simone Giusti, o al domenicano Padre Lores; il suo prostrarsi salutando il nuovo sindaco Marco Bortolotti; la battuta sulla Madonna di Fatima, quando giratosi vide che sorrideva proprio a lui – “spero che Padre Lores non s’ingelosisca”; il movimento sottile del dito indice, a spirale ascendente, accompagnando l’affermazione che il Dharma si elabora davvero nel cuore, la centralità dell’amore, col braccio destro e la mano tesa avanti; i cristiani (in genere gli occidentali) così perfetti nella meditazione, mentre “noi tossiamo, sbadigliamo etc” (mimando la diversità di posture), e così via: tutto questo mostra un corpo e una mente liberi, in perfetta oscillazione ritmica, un corpo di grazia, una piccola danza.

FRANCO ARMINIO: SOGNARE UNA POLITICA-POESIA

3 giugno 2014

Franco Arminio è personaggio singolare nel panorama italiano. Interessante questa presentazione della sua GEOGRAFIA COMMOSSA DELL’ITALIA INTERNA alla Biblioteca delle Oblate a Firenze, sala lunga e stipata di libri sotto vetro. La lettura dei suoi testi, poetici e ispidi era meditata e tradizionale, ma la conversazione molto NATURALE, quasi un maestro elementare in trattoria… la gente è rimasta colpita da questa simpatia umana.

RIO SAMAYA IMPROVISING BAND – Welcoming & Transforming

4 Maggio 2014

Pancho e Sal, focus di una band argentina sempre in movimento. Qui, al mitico Dylan’s Café di Arambol, hanno generato nuovi elementi: (da sinistra a destra per lo spettatore) ALAN GLASHAN bass, SASHKA harp, PANCHO voice lead guitar ocarine etc, KOREAN drum, NIC LICHA maracas, SAL voice harmonica, ARIANNA flute, ADRIANA little sax, ADRIAN sax, PHILIPPE trumpet, plus the mixer…
che forse non si rincontreranno più, ma che per una sera hanno creato un evento unico, sì che danza tutto il pubblico del Dylan.
Il segreto è il sorriso, la dolcezza che accoglie e integra (p. esempio qui lo scatenato sax) e così trasforma.
Una festa latinoamericana eppure soft, in spirito New Age.

KUCHIPUDI ODISHA since CHILDREN

3 Maggio 2014

One of the most interesting experiences you can get in India is to assist to a children dance show, periodically given by the villages families to a city: you can watch the DANCE culture & education ‘crescendo’ from the very beginning and tender age to a top, mature & artistic level in a capital theatre, like here the Maduri group at the KUCHIPUDI Festival in Bhubaneswar, Jan 2014.

ARTURO BENEDETTI MICHELANGELI’s HANDS

18 febbraio 2014

From my poetry book La gioia dell’impossibile,
translated by myself and read with the help-contrast
at Dylan’s Café in Goa

ARAMBOL CIRCUS – beach only

17 febbraio 2014

Un mio libro sull’argomento è in corso di pubblicazione.
Queste sono immagini dell’Impossibile. La COMUNITA’ dei senza-comunità.
L’ultimo lembo di libertà sul pianeta.

AUGURI SENOR BERGOGLIO

3 gennaio 2014

AUGURI SEÑOR BERGOGLIO
di Nicola Licciardello (SHUNYATA)

Ho passato il Capodanno a leggere le duecento pagine dell’Evangelii Gaudium di papa Francesco, sollecitato dal sensazionale titolo di Scalfari “La Rivoluzione di Francesco abolisce il peccato” – nient’affatto, ovviamente. Anzi, premesso che l’Esortazione non si occupa di questioni teologiche, sui temi sensibili quali l’interruzione di gravidanza, il matrimonio same sex e il sacerdozio femminile, essa riafferma l’intangibilità di tali principi per la Chiesa. Aggiungo che il capitolo sul “dialogo interreligioso” (soltanto con le altre due religioni monoteiste, Islam ed Ebraismo) appare poco pregnante, se non evasivo, rispetto al grandioso impianto della Missiva. E che l’unica voce in difesa della Terra con tutti i suoi esseri viventi è affidata ai vescovi delle Filippine, che stigmatizzano il fango entro cui milioni di insetti periscono a causa dello sfruttamento dei suoli – il che (sia detto sine ira) non ci sembra raccogliere a pieno l’eredità del messaggio di Fraternità metafisica espresso a suo tempo da San Francesco.
Ma fatti questi rilievi, colpisce la struttura magistrale e accuratissima del documento, i rimandi non solo a fonti bibliche ed evangeliche, ma ai Concilii dei Vescovi (America, Africa, Asia, Oceania etc), al Vaticano II e allo stesso Ratzinger – in una volontà, una fede nel ravvedimento ecclesiale e nella riaccensione della Missione evangelica come vocazione originaria del Cristiano (“Andate e predicate”) che ha del titanico, librata com’è su un supposto re-Inizio della storia. Interessanti le varie notazioni sulla gioia (in apertura) e sulla bellezza (Via Pulcritudinis) in cui il Messaggio può diffondersi fra le varie culture, nonché le sottili definizioni delle spiritualità edoniste. Ma – riaffermata la Verità elettiva di una “Chiesa povera per i poveri” – più di tutto inequivocabili, radicali e ‘rivoluzionari’ sono i passi sull’incurabilità del sistema global-finanziario basato sull’individualismo consumistico.
Denunce da fare invidia a Marx sono quelle in cui si smascherano lo sfruttamento fino all’esclusione dalla società dell’uomo ridotto a “scarto”, e che “in tale contesto, alcuni ancora difendano le teorie della presupposta a ogni crescita economica favorita dal libero mercato, che riuscirebbe a produrre di per sé una maggiore equità e inclusione sociale. Questa opinione, che non è mai stata confermata dai fatti, esprime una fiducia grossolana e ingenua nella bontà di coloro che detengono il potere economico e nei meccanismi sacralizzati del sistema economico imperante. Nel frattempo, gli esclusi continuano ad aspettare. Per poter sostenere uno stile di vita che esclude gli altri, o per potersi entusiasmare con questo ideale egoistico, si è sviluppata una globalizzazione dell’indifferenza.” Con altrettanta decisione si lancia l’avvertimento ai poteri: “Oggi da molte parti si reclama maggiore sicurezza. Ma fino a quando non si eliminano l’esclusione e l’inequità nella società e tra i diversi popoli sarà impossibile sradicare la violenza… senza uguaglianza di opportunità, le diverse forme di aggressione e di guerra troveranno un terreno fertile che prima poi provocherà l’esplosione. Quando la società – locale, nazionale o
mondiale – abbandona nella periferia una parte di sé, non vi saranno programmi politici, né forze dell’ordine o di intelligence che possano assicurare illimitatamente la tranquillità” (59).

Denunce in nome della dignità dell’uomo, e di una proprietà privata ammissibile solo se utile al Bene Comune (come nella Costituzione italiana), che hanno reso simpatico l’uomo Francesco – abile ‘performer’ (non meramente mediatico come Giovanni Paolo II) persino nelle studiate pause delle sue omelie, al momento di uno sdegno o di un richiamo al perdono divino – e non ultimo (assieme a Putin) nell’aver contribuito a evitare una nuova guerra. Queste affermazioni pongono una sfida storica a ciò che rimane delle “sinistre”. Se, infatti, è dubbio che le masse crescenti di esclusi possano venir attratte dalla fede cristiana – anche se accortamente il papa ricorda che il Regno è stato dato perché tutti gli uomini possano goderne anche qui sulla terra – è altrettanto dubbio che esse possano venir sinceramente attratte da una secolarista “lotta di classe” o da un qualsiasi Programma di nuova Europa o di Cittadinanza mondiale. L’umanità (non tutta ancora nei famosi Brics) è stanca e sfiduciata nella Politica tout court. Nessuna statistica o controstatistica, nessuna denuncia e/o proposta monetaria o fiscale possono riaccenderne la speranza.

Ma il Papa ha un vantaggio decisivo: parla all’Ecumene, e in nome di una Trascendenza, di un futuro e di un Al di là. E appare come il solo rimasto, legittimato a farlo: dopo Walter Benjamin e Gilles Deleuze (e forse alcuni tentativi della cosidetta “scuola italiana” cognitivo-marxista), non c’è una voce di filosofo, di scienziato, di naturalista che sembri poter unificare la prospettiva di un pensiero emancipativo. Nessun San Precario e nessun ecologismo, nonostante i movimenti che essi generano, hanno questa forza trascendentale, e quindi non possono com-muovere al Bene Comune (la stessa ‘pluralizzazione’ in “beni comuni” non ha giovato alla loro causa) – dacché il presupposto storico ormai dato per definitivo, quello antropocentrico e orizzontale ha castrato la mente (la psiche) umana del suo anelito alla trascendenza – intesa qual si voglia. Persino sulla scuola il papa ha chiare lettere: “si rende necessaria un’educazione che insegni a pensare criticamente e che offra un percorso di maturazione nei valori.” Un compito e una responsabilità colossali attendono questo papa e la sua ‘armata’ evangelica e – pur senza condividerne la teologia – non gli si può che augurare Buon Lavoro – se alle belle parole saprà far seguire i fatti (“la realtà è più importante dell’idea”, egli afferma).

Per quanto ci concerne, possiamo dire solo: finché ciascun uomo non compia ogni giorno qualcosa per la cura dell’ambiente che lo circonda – abbandonare in giro una lattina o una plastica dovrebbe già essere punito come reato grave (come lo è stato per estirpare il fumo nei luoghi pubblici, e via crescendo ai reati ambientali macroscopici) – finché ciascun uomo non senta l’intera Terra come parte di sé, finché non si volga non solo al “prossimo” ma persino alle stelle come compagne e amiche, nessuna politica e nessun software potranno re-innamorare alla vita comune, all’incommesurabile Stupore della creazione continua e condivisa – che è una forma di trascendenza.
NICOLA LICCIARDELLO
3 gennaio 2014

MAFFESOLI-MASTURBAZIONE E FACEBOOK CELEBRANO IL PIACERE IMPRODUTTIVO

16 settembre 2013

Alla domanda (di chi scrive e riprende il video) su tanta ‘immondizia’ presente in facebook, data l’immaturità dei molti soggetti che si espongono, Michel Maffesoli replica che è proprio tutta questa intercomunicazione globale, esattamente come la MASTURBAZIONE, che implica una relazione sociale, a costituire il godimento IMPRODUTTIVO, contro il principio di realtà e di prestazione della modernità. Dunque questa è una misura della libertà senza giudizi. Il tema è uno dei fili rossi di questo Festival di Filosofia 2013, come testimonia il panphlet Gli usi postmoderni del sesso di Zigmunt Bauman, e la lezione di Michela Marzano, il cui La fine del desiderio ha come sottotitolo Riflessioni sulla pornografia. Si tratta di una progressiva resa della Filosofia alla ‘laicità’ sociologica e antropologica.

RODOTA’ DIRITTO ALL’AMORE-FEST FILOSOFIA 2013 MODENA

16 settembre 2013

Stefano Rodotà entusiasma Piazza Grande a Modena (sabato 14 settembre 2013) con un ricchissimo excursus storico sul matrimonio come emanazione del Diritto pubblico, cioè della sovranità di Stato e Chiesa sul corpo degli amanti, cosa impossibile. Lo schema sarà superato con la riforma del diritto di famiglia del 1975, ma ancora manca il pieno riconoscimento sociale alle convivenze. La sua laica passione, la generosità e dirittura personale mantengono alta l’attenzione per più di un’ora, qualcuno lo acclama “il nostro vero Presidente”.

L’INFINITO DI LEOPARDI

20 agosto 2013

Questa è la voce del pensiero, del pensare. E’ una voce muta e ammutolita dall’evento che essa evoca: la fine del pensiero. La “dolcezza” del “naufragio” nel mare dell’immaginazione, del Reale Immanifesto che si proietta nella mente, nel cuore manifesto del Poeta, la cui voce si confonde col vento e la Presente stagione – ne fa una delle poesie paradigmatiche della lingua italiana. L’unica (sorgiva negli appunti del Poeta, che aggiunse solo l’ultimo verso) la cui semplicità dice la cosa stessa, senz’ombra alcuna, senza ‘malinconia’ – che anzi afferma la gioia di tale naufragio. Advaita Vedanta, non-dualista, realizza qui, caso eccezionale, Leopardi. Impossibile Voce dell’Impossibile, dunque.
L’infinito di Leopardi rimane un indicibile, perché è la voce del pensare, che si estingue. La voce del pensare all’immaginare: le immagini sono indirette, sono metaimmagini, anche il “vento odo stormir tra queste piante” non è un vento fisico, anche se è Presente, come la “stagione viva” e “il suon di lei”. Sono Immagini Pensate, dal Pensare, che è un oltrepassare il confine – il confine “caro” perché provoca il pensare l’oltre il confine, provoca cioè l’IMMAGINARE. Ma, ecco il truc leopardiano. Di là dal confine, che cosa immagina il suo pensare ? Non campi fioriti, non paradisi – ma lo SPAZIO Assoluto, il SILENZIO, la Quiete del VUOTO – anche se non il Nulla, un Immobile SOVRUMANO, l’ETERNITA’ oltre il Tempo. Brahman. Ma un Brahman ‘materialistico’, senza connotazioni spirituali, né creative o emanative, e nemmeno attrattive per un ego particolare a ricongiungervisi. Un ego pensa questo Sovrumano, questo UberMensch come una condizione di Suprema Quiete, inattingibile (in vita e anche in morte). Ma perciò egli può pensare tale condizione, però non può dirla. Perché il dicibile si ha solo nella comunicazione umana. Perciò di quella condizione incomunicabile il “cuore quasi si spaura”.
Dunque in che cosa esattamente “s’annega” il pensiero, e perché questo naufragio è “dolce” ? Dalla sequenza, in effetti, non sembra che il pensiero s’anneghi nell’Eternità sovrumana, ma in una “immensità” – costituita dallo spazio stesso dell’umano Immaginare, che risale e torna dal presente fisico (immaginato) alle morte stagioni e all’eterno. Questo umano immaginare è il vero INFINITO (una prima versione aveva “infinità” al posto di “immensità”). Il pensare annega nell’infinito dell’immaginazione. Ma allora la dolcezza del naufragio non sta nell’annullamento dell’io o della sua attività mentale, non è un cupio dissolvi – e ricordiamo che “annegare” e “naufragio” sono immagini, metafore di un venir sommersi. Al contrario, verificandosi l’impotenza del pensiero a pensare veramente e definire un Al di là e un’Eternità, succede che a vivere è ora solo l’infinito Spazio dell’Immaginare – dall’Immaginare l’ego è vinto e sommerso, dalla infinita libertà creativa dell’immaginazione (“che non vi sto nemmeno a dire” sembra concludere implicitamente Leopardi). L’entrare in questa libera immaginazione allora è la fonte del piacere, l’unica dolcezza concessa all’umano. E ancor meno dicibile dell’eternità (che almeno era pensabile) è questa dolcezza, questo rasa o sapore – che solo chiede al lettore altrettanta immaginazione, nel vedere l’invisibile, e quindi la dolcezza nel suo sprofondarvi.

Ubi major, minor non cessat: è appena uscito il cofanetto di Carmelo Bene che legge i Canti di Leopardi, ma ciò non esime dal tentare di dar voce a questo Impossibile. Tanto più se dove abito c’è un colle che fa da siepe a un al di là, che sempre mi ricorda l'”idillio” di Leopardi. Anche se il ‘mio’ immaginare non porta al piacere del Silenzio e della Quiete, ma piuttosto alla gioia di un pieno esplosivo.

LEOPARDI: CANTO NOTTURNO

13 agosto 2013

Due sono le voci principali di questa ‘ballata’, essenzialmente amara. Una è appunto la voce del pensiero ‘stoico’ antico, o meglio del pessimismo radicale del Poeta. L’altra è la voce di una ‘nuova innocenza’ (direbbe Raymundo Panikkar), una semplicità e immediatezza da brivido, in quelle esclamazioni e interrogazioni alla luna, al gregge, al cosmo, a se stesso — che costituiscono la meditazione più alta e ‘purificante’ cui giunge il Leopardi — mantenendo la promessa di una fraternità con gli esseri della natura.
Due ritmi dunque: quello aspro della vana corsa e circolazione dei viventi senza riscatto. L’altro, quello lento e tenero delle domande agli ‘eterni’ (la luna, ma forse anche la greggia, certo le stelle), in un tentativo di dialogo che si rivela ogni volta impossibile. La dialettica fra le due voci tiene alta la tensione musicale del canto, assai difficile da trasformare in un’unica voce.

PSARANTONIS QUARTET at SHIVA-DIONISO-Zagarolo (Roma)

11 agosto 2013

Within the splendid garden frame of Palazzo Ruspigliosi at Zagarolo (Rome) on the June solstice 2013, for SHIVA-DIONISO Festival has performed Psarantonis Quartet, which is present at the major International festivals. Antonis Xyiouris began to sing at 13, his style is unique as well his power, something like a ‘saint and shaman’, his volcanic uttering is really ‘dyonisiac’ and so can be compared with a dance song to the Absolute, like the one by Shiva Nataraja.

Nella splendida cornice del Giardino di Palazzo Ruspigliosi a Zagarolo (Roma), per il Festival solstiziale SHIVA-DIONISO, si è svolta una memorabile performance del Quartetto Psarantonis, presente ai maggiori festival di musica internazionale negli ultimi anni. il ‘santo’ sciamano Antonis Xyiouris ha iniziato a 13 anni a cantare (ora ne ha 80), e il suo stile unico e inimitabile è davvero un vulcanica eruzione dionisiaca di ritmi di una danza assoluta, così ben comparabile con quella di Shiva.

DANTE: PURGATORIO XXVII

27 luglio 2013

Un canto decisivo: la prova del Fuoco per Dante, prima di passare al paradiso terrestre e incontrare Matelda (XXVIII e seguenti). Qui la prefigura in sogno Lia, che coglie fiori cantando e proclama di amare le opere. E qui avviene l’addio di Virgilio al Poeta, perché “oltre non discerne”. Ma prima proclama “libero, dritto e sano” l’arbitrio di Dante, che d’ora in poi sarà guidato dal suo “piacere”. IL PASSAGGIO ALL’INNOCENZA.

IL RITMO ORIGINE DELLA FORMA-NATYAKALA 2012

20 luglio 2013

Questo intervento di Nicola Licciardello (relazione alla rassegna di danza indiana Natyakala, Venezia, 17 giugno 2012) ripercorre la storia della nozione di Ritmo nella filosofia occidentale e orientale, come principio dinamico nella genesi delle forme biologiche e artistiche. Individua nella frattura platonica anima-corpo la crisi del ritmo in occidente. Comparando poi, in particolare, la retorica del ritmo nel Teatro Eurasiano di Eugenio Barba e nel Natya (teatro-danza indiano), ne mostra in entrambi il valore ascetico-iniziatico e insieme socialmente vitale.

PIETRE CHE DANZANO

15 luglio 2013

Alla rassegna di danza e teatro dell’India NATYAKALA di Venezia, il 29 giugno chi scrive ha presentato questo intervento:PIETRE CHE DANZANO def

PETRARCA: Pace non trovo, Levommi il mio pensier

3 giugno 2013

Irripetibile lettura, da un periodo felice e transculturale, in cui ci si immedesimava.
Ma Petrarca è attualissimo e inesauribile. Petrarca, non il petrarchismo, ovviamente. La crisi del poeta dello StilNovo, quando la fede nell’aldilà comincia a vacillare, e inizia l’agonia del soggetto moderno. Proseguendo però l’artigianato più alto della parola poetica.

LA BELLEZZA DI FRANCA RAME

1 giugno 2013

LA BELLEZZA (di) FRANCA

di Nicola Licciardello

Mi spiace non essere stato a Milano, al commiato di Franca Rame e al rovesciamento della Bibbia in teatro comunista di Dario e Jacopo Fo, accanto alla bara di Franca Rame. Un evento storico come pochi, un attimo che congiunge i tempi, che illumina quasi mezzo secolo di cultura italiana, facendolo ancora sussultare. Esserci, vedere quali vecchi e quali giovani erano presenti, celebrando non una vittima della mafia, ma una donna che, pure offesa dalla violenza, è rimasta vincente. Voglio notare che in mezzo alle giuste proteste per le parole del tg2, quasi tutti i ricordi partono col parlare della sua “bellezza” – “bellissima”, “incredibile bellezza”, etc. Come fosse una qualità in sé, un requisito oggettivo e assoluto. Ma la bellezza è qualcosa che si porta, che s’indossa in pubblico, che vive solo in quanto lo spirito di una persona la muove, usando mente e corpo per dialogare coi suoi simili.  La bellezza di Franca è stata allora una “maschera nuda”, una vita in gioco vero, quello della vita e del teatro, che nei più consapevoli di allora si identificavano. Giustamente Manzella oggi su “Alias” ricorda anche il Living Theatre e Carmelo Bene. La bellezza di Franca era la sua indomita energia, la sua voce rauca, la nausea per la bellezza patinata da soubrette o da signora per bene che avrebbe potuto rappresentare, che traspariva in ogni smorfia delle sue performances – il tragicomico, epico distacco da quel tipo di personaggi, il suo essere sempre al di là, in una lotta di verità.

I tempi sono cambiati, ma invece di rimpiangerli per le grandi possibilità che c’erano, ci serve molto più una nostalgia del futuro.

SISSI: music star in Germany and the Island

28 marzo 2013

Rafael & Alex: Armonica & Poetry

28 marzo 2013

PHILIPPE HOLLMULLER trumpet

28 marzo 2013

 

MONICA BARGHINI Blues 2013

5 marzo 2013

Monica Barghini con la Peter Pan Band, da un luogo in cui le miserie dell’Italia non si sentono, e in cui gli artisti invece tengono alta la sua bandiera: riuscendo miracolosamente a produrre un sound anni 70, straordinariamente vivo e coinvolgente.

JOTI PERCUSSIONS AND DANCE

24 febbraio 2013

NAAMA & AARON – GIMME LOVE

22 febbraio 2013

Naama Rahamim, 22, photographer from Israel, in Goa Loekie Café gave her last singing performance before to come back home after 9 months travelling Asia. She has just discovered the power of her voice, her flowing character !  She sings just like eating or drumming on the beach, absolute naturally & free !

COPPIA IN RITMO

10 febbraio 2013